«Con te stesso fuggi»
(Seneca)
Ti chiedi perché tutta la tua agitazione non serva a nulla? Risposta: perché, ovunque tu fugga, fuggi con te stesso.
Traduco liberamente un passo della ventottesima Epistola di Seneca a Lucilio e, per il piacere di farti sentire la musicalità della lingua latina, specie se non hai avuto la fortuna e il piacere di studiarla, ti trascrivo per intero il brano: Quid terrarum iuvare novitas potest? Quid cognitio urbium aut locorum? In irritum cedit ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? Tecum fugis.
Proprio così: a nulla serve la novità di viaggiare per luoghi e città, a nulla serve agitarsi se prima non si è in pace con se stessi: perché, ovunque tu vada, ci vai portando te stesso.
Queste parole hanno illuminato un appunto che avevo preso giorni fa quando, non ricordo più in quale circostanza, ho ascoltato, o forse letto, una frase di cui ignoro la fonte: la tua ferita te la porterai sempre dietro.
E così ho pensato…
Ho pensato a quanto ci ingannino le apparenze, alla facilità con cui siamo indotti a presumere di sapere tutto su tutti, persino su noi stessi. E invece non è così.
Perché ci sono ferite nascoste. E tutti recano con sé ferite sommerse. Magari a loro stessa insaputa.
Siamo quello che siamo, quel che appariamo, ma siamo anche, e forse soprattutto, quel che di noi stessi ignoriamo.
Sì, ci portiamo dentro ferite e cicatrici.
Certo: si auspica diventino feritoie e cuciture, si spera che da esse trapeli nuova luce e che per esse si intreccino legami di nuove relazioni. Ma è sicuro che su nessuno di noi è mai detta l’ultima parola e che il “chi sono io per giudicare” non è solo una bella citazione di papa Francesco: potrebbe essere un insegnamento per tutti, a partire dal giudizio che abbiamo su noi stessi.
Intendo: chi sono io per giudicarmi? Cosa ne so veramente, in profondità, di me stesso? Cosa ne so dei mille incroci che mi hanno portato qui e ora, e delle mille sliding doors che, magari per colpa o anche per merito, ho evitato o imboccato tanto da mutarmi in un calzino spaiato? Oppure come faccio a render conto delle opportunità che mi sono state donate gratuitamente? Di quelle che ho colto così come di quelle che ho smarrito?
E che ne so io del mio futuro?
Quale sarà la mia ultima parola e l’ultima parola su di me?
Chiunque si trovi a misurarsi con questi interrogativi, io credo, dovrebbe avere l’umiltà di sospendere il giudizio. Il che, mi pare, non è affatto una soluzione di comodo. È piuttosto un’attitudine interiore, una “azione non agente” direbbe Simone Weil, una capacità di attendere (ad tendere: tendere verso…), restando solo apparentemente fermi e intanto forzando l’aurora col proprio desiderio.
Solo così, forse, si impara la tolleranza: verso se stessi e verso gli altri.
Perché difficilmente pratica la tolleranza con gli altri chi è intollerante con se stesso.
O almeno è questa la mia umile e tenace convinzione.
A proposito di convincimenti interiori, inculcati da maestri tenaci, Seneca, subito prima delle parole che aprono questo caffè, si rifà alla lezione di Socrate e lo cita: Quidi miraris nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te circumferas? Premitte eadem causa quae expulit.
Traduzione: di che ti meravigli se i viaggi non ti servono a nulla dal momento che porti in giro te stesso? Ti incalza la stessa ragione che ti ha spinto lontano.
Insiste lo stesso Seneca: Devi cambiare animo, non clima. Per quanto tu abbia attraversato un grande mare […], ti seguiranno i tuoi difetti ovunque tu giungerai.
Mi sembra faccia il paio, ma in luce positiva, con Etty Hillesum: «Si è a casa sotto il cielo. Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi. Spesso mi sono sentita, e ancora mi sento, come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso: le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare dappertutto. Dobbiamo essere la nostra propria patria».
Iniziare un nuovo giorno con la lettura di queste parole, con questo spunto di riflessione non ha prezzo .
Grazie Paolo per questo dono .
Santa domenica.
Grazie a te, Ivana