[Parte prima – perché?]

Venerdì 16 febbraio la mia scuola ha avuto l’opportunità di ospitare Agostino Burberi, che è stato uno dei primi allievi di don Lorenzo Milani nella scuola della Barbiana nella prima metà degli anni ’50. Era la possibilità di portare una testimonianza vissuta della scuola della Barbiana e dell’idea di scuola di don Milani, poi espressa nella “Lettera ad una professoressa”. L’incontro era destinato agli studenti delle mie quinte e di altri studenti della due scuole superiori della città di Corato.

Ho osservato gli studenti mentre Agostino Burberi parlava e nel dibattito che è seguito, constatando con amarezza che i più disinteressati erano gli studenti dell’istituto professionale, nonostante la testimonianza di Agostino Burberi era molto vicina al loro vissuto. Gli studenti del professionale provengono per la gran parte da famiglie di una condizione sociale, culturale ed economica che corrisponderebbe oggi alle famiglie degli allievi della scuola della Barbiana.

Il primo impulso al disinteresse mostrato dai ragazzi del professionale sarebbe di condanna. Chi ha insegnato o insegna nel primo biennio degli istituti professionali vive la tragica e quotidiana esperienza di operare in un ambiente che può essere definito un girone infernale. Molti degli studenti provengono da famiglie in condizioni economiche molto modeste o disagiate e culturalmente povere. Ma anche gli allievi di don Milani provenivano da famiglie di condizioni economiche e culturali simili, anzi, per molti aspetti peggiori, eppure Agostino Burberi ed i suoi compagni credevano nella scuola e nell’istruzione. Nella “Lettera ad una professoressa” don Milani intendeva far emergere il pregiudizio classista in ragione del quale un figlio del proletariato incontrava grandi difficoltà ad accedere alla scuola media. I ragazzi degli istituti professionali hanno invece la possibilità di conseguire un diploma di scuola superiore, eppure sono tanti gli studenti del primo biennio del tutto disinteressati a quello che gli allievi di don Milani consideravano un grande obiettivo. Condannarli attribuendo interamente loro la responsabilità di questo disinteresse sarebbe troppo facile. Scriveva Spinoza nel Trattato teologico-politico “… humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere: …”. Ma non è affatto facile comprendere per quali ragioni un ragazzo o una ragazza che proviene da famiglie in condizioni di disagio economico e culturale rifiuti la possibilità offerta di poter migliorare la sua prospettiva di vita con lo studio. Cercherò di seguito di formulare alcune ipotesi per comprendere tali comportamenti.

Un’ipotesi è che il rifiuto dell’istruzione e della scuola ed i comportamenti che questi ragazzi mostrano a scuola sia una nuova forma di disadattamento, se non di devianza, da benessere, conseguenza dei (dis)valori di consumismo e di possesso dei beni materiali, disvalori ancor più distruttivi in contesti di relativa deprivazione materiale e culturale. Un insegnante ai loro occhi non appare un modello, bensì uno che ha passato anni a studiare per una retribuzione di poco superiore ad un operaio e che quindi non può permettersi quei beni materiali che secondo i disvalori di cui sopra sono divenuti il senso e l’obiettivo dell’esistenza. Gli allievi di don Milani volevano un’esistenza dignitosa, erano in conflitto con la società del tempo ed avevano ereditato il senso di appartenenza ad una comunità, per cui le soluzioni ai problemi erano pensate in termini collettivi (politiche, non individuali). Invece i nostri studenti dei professionali hanno purtroppo recepito e fatti propri i disvalori del consumo, del possesso dei beni materiali, dell’individualismo. Paradossalmente sono ben integrati nel tempo in cui vivono, ma il vedersi poi negati i beni materiali esibiti da chi li possiede genera in loro un sentimento di rancore che si può cogliere nei comportamenti e nelle violenze che avvengono nell’ambito scolastico.

Tuttavia condannare i fenomeni di violenza e le trasgressioni alle norme non coglie un altro aspetto, ossia che con quei comportamenti gli studenti cercano di affermare una loro identità, sebbene negativa. Lo studente del professionale condivide certi (dis)valori, ma percepisce che la possibilità di accedere a ruoli sociali ad elevato reddito non gli sono accessibili in modo legittimo. Ha già sperimentato insuccessi ed umiliazioni ed ha purtroppo compreso che per emergere deve competere seguendo regole e valori che non sono della sua classe sociale di appartenenza. Ha vissuto e continua a vivere una condizione di svantaggio rispetto al suo coetaneo che ha ricevuto una socializzazione e beneficiato di un capitale familiare rispondente alle richieste della scuola. Vive sentimenti di frustrazione cui reagisce con comportamenti devianti, in reazione contro un sistema di norme e valori (e disvalori), che tuttavia ha interiorizzato. La difficoltà che incontriamo nel trovare criteri con cui comprendere i vantaggi derivanti da certi comportamenti, l’aggressività e la sproporzione di questi possono diventare in parte comprensibili riconducendoli alla funzione psicologica di difesa che svolgono.

I comportamenti censurabili e devianti possono trovare altre spiegazioni. Questi consentono l’affiliazione dello studente ad altri compagni di classe con cui condivide le stesse frustrazioni. Consente di affermare, in contrapposizione con la scuola e con ciò che essa indirettamente rappresenta, una propria identità sociale ed innalzare in tal modo la stime di sé.

Con il passaggio di cui sopra il problema da individuale diviene sociale, poiché la reazione della istituzione scuola alle norme violate alimenta le modificazioni negative della sua identità in conseguenza del processo di etichettamento, stereotipizzazione ed esclusione. In altri termini la scuola, senza volerlo (?), alimenta i comportamenti che condanna posto in atto. Il comportamento in violazione delle regole e la reazione della scuola, ossia la sanzione e la stigmatizzazione che segue, definiscono ed attribuiscono un determinato ruolo e pertanto hanno la conseguenza paradossale di rafforzare la convinzione di quello studente a svolgere quel ruolo.

Gli adolescenti in situazioni di svantaggio economico e culturale e che in non pochi casi hanno già subito l’etichettamento di cui sopra nella secondaria di I grado (la scuola media), si trovano dopo i 14 anni quasi tutti negli istituti professionali per assolvere l’obbligo scolastico e devono quindi reciprocamente gestire e consolidare l’etichetta loro attribuita e la loro “reputazione” nel nuovo ambito. Gli adolescenti vivono quell’età in piccoli gruppi che si costituiscono per affinità, in cui ci si conosce bene, e questi gruppi sono in relazione tra loro. All’interno del gruppo e verso gli altri gruppi il singolo adolescente deve dare un’immagine di sé il più possibile coerente su come si rappresenta e lo fa gestendo più o meno consapevolmente le interazioni. I comportamenti fuori dalle regole e il loro ripetersi sono il mezzo con cui quel ragazzo comunica qualcosa di sé a chi conosce. Il comportamento censurato diviene quindi espressione di una scelta finalizzata a costruire e mantenere una certa reputazione con i pari del suo e di altri gruppi. Sono scelte intenzionali, difatti quasi mai certi comportamenti sono tenuti nascosti, anzi devono avvenire dinanzi ad un pubblico e spesso sono commessi in gruppo. Ne è prova indiretta il fatto che non si tende a nascondere i comportamenti censurati. Ciò che si dice sul comportamento ha la funzione di presentare sé a chi ha di fronte e trasgredire le regole ha significato perché consente al soggetto di presentare sé al suo gruppo di riferimento. È una scelta consapevole e quindi significativa dell’identità di chi compie la trasgressione. Questa manifesta e definisce l’orientamento dell’adolescente nei confronti della scuola e delle istituzioni e quale il suo rapporto con l’autorità formale. L’orientamento nei confronti dell’autorità consegue dalle esperienze che l’adolescente ha avuto verso le istituzioni, in particolare verso la scuola. L’immagine di sé che ha interiorizzato determina i suoi comportamenti nei confronti dell’istituzione. Se questa è stata vissuta come fonte di discriminazioni e pregiudizi, la relazione con la scuola sarà di diffidenza e sfiducia. La relazione negativa fra adolescente ed istituzione si esprime in comportamenti con cui si sfida la capacità dell’istituzione di difendere se stessa, sia sul piano concreto che simbolico, ed i suoi rappresentanti, consegue dalla valutazione negativa della scuola e di chi rappresenta l’autorità legale. Chi si percepisce come emarginato con i suoi comportamenti devianti cerca di conservare la propria reputazione nel gruppo di appartenenza, in opposizione all’autorità legale, in questo caso la scuola. Questi gruppi hanno delle loro regole non espresse e i comportamenti di sfida e violazione delle regole scolastiche definiscono l’appartenenza al gruppo. Le minacce di punizioni e le punizioni paradossalmente rafforzano la scelta di assumere comportamenti di sfida e violazione delle regole.

L’esperienza scolastica già dagli inizi troppo spesso conferma il divario di risorse, di capitale familiare, che precede l’ingresso a scuola, tra chi proviene da ceti svantaggiati e i ragazzi provenienti dalle classi medie e alte. Il divario di risorse, materiali e culturali, purtroppo viene difficilmente colmato. Chi proviene da famiglie svantaggiate incorre più facilmente in sanzioni, con l’etichettamento che ne consegue, ha esiti scolastici penalizzati dalla carenza di risorse, spesso vive in classi con coetanei che provengono anche loro da famiglie svantaggiate e con loro avverte la limitatezza di prospettive. Tali situazioni alimentano diffidenza e sfiducia verso la scuola che sono parallele alla diffidenza e sfiducia verso le istituzioni.

Savino Gallo

Dirigente  Scolastico

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2 COMMENTI

  1. Gli Istituti Professionali a volte riflettono il classismo. Non sempre l’Alberghiero o l’ex Istituto d’Arte Sacra. Il Progetto ‘92 a cui partecipai all’Alberghiero mi rese fiera di insegnare ai Professionali. Dal 2000 in poi l’Istruzione Professionale di Stato mi sembra che abbia subito un arretramento d’investimento a favore della CFP – Formazione Professionale Regionale. E’ un peccato perché sia nel ‘92 che al Don Bosco di Alessandria d’Egitto – professionale per meccanico ed elettricisti – fu un onore insegnare in quel tipo di scuola. Lo stato deve crederci. L’Istruzione di Stato è altra cosa da quella delle Regioni. La Direzione dell’Istruzione Tecnico Professionale nei primi anni ‘90 riguardava il 40 % circa degli studenti e investiva molto. Infine a volte sono i docenti che nell’istruzione professionale non provano abbastanza orgoglio e questo comunica disvalore. Il classismo intrinsecò della società italiana fa il resto con nulla mobilità sociale percepita. Grazie

  2. I professionali non sono dei gironi infernali e i ragazzi non sono diavoli. Sono semplicemente dei giovani che vogliono imparare una professione e questo diritto è stato negato con la disastrosa riforma Gelmini/Tremonti e poi peggiorata da Renzi. Tali riforme hanno messo in un unico calderone tutte le professioni, senza tener conto delle loro diversità. Il professionale è diventato come un ospedale con un unico reparto i cui medici, in base alle esigenze, si trasformano da ortopedici a cardiologi a oculistica e così via. Infatti dal 2011 fino ad oggi le iscrizioni si sono dimezzate e gli unici ragazzi che si scrivono sono quelli descritti da dirigente scolastico.

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