[Parte seconda – che fare?]
Le ipotesi sopra esposte cercano di integrare le ragioni sociali ed individuali ai comportamenti devianti degli studenti degli istituti professionali, considerando le stesse congiuntamente implicate. Non si ha la pretesa che siano esaustive, quasi sicuramente vi sono altre possibili spiegazioni ai comportamenti oggetto dell’analisi.
Vi è tuttavia la necessità del passaggio successivo, all’analisi devono seguire delle ipotesi di intervento che considerino come rimediare a comportamenti prossimi se non del tutto devianti.
Chi scrive è della convinzione che gli interventi che possono avvenire quando quei ragazzi entrano in un istituto professionale, ovvero a 14 anni, siano tardivi se non velleitari, che anzi i comportamenti censurati siano destinati a ripetersi ed ad aumentare poiché in quella sede si riceve l’appoggio e l’approvazione di coetanei che condividono lo stesso vissuto e l’atteggiamento oppositivo verso le istituzioni, a cominciare dalla scuola. I ragazzi provengono molto spesso da aree degradate e maggiore è il degrado, maggiore è la possibilità che l’adolescente venga in contatto e in relazione con coetanei con comportamenti devianti o oppositivi verso la scuola e le istituzioni.
Le ricerche ci dicono che i comportamenti oppositivi e devianti sono in relazione inversa con il tempo che si trascorre sotto la vigilanza degli adulti nonché all’ampiezza di risorse fruibili e disponibili nell’ambito in cui si vive. I fattori che contengono il rischio di comportamenti devianti possono essere individuate in: 1) un ambiente educativo accogliente ed in grado di assicurare la sorveglianza da parte degli adulti; 2) uno sviluppo cognitivo nella norma con esiti scolastici positivi; 3) relazioni positive con i coetanei; 4) partecipazione ad attività sociali; 5) capacità di progettare il proprio futuro in termini realistici. Il tutto deve far sì che i soggetti potenzialmente a rischio costruiscano un’immagine positiva di sé congiuntamente con una rappresentazione positiva della realtà in cui vivono e delle sue istituzioni. Ciò può avvenire se vi è una “comunità educante” (che non è solo la scuola) che consenta al soggetto potenzialmente a rischio di sentirsi accolto e sia posto nelle condizioni di sviluppare competenze sociali, di progettare il proprio futuro e di assumersi i relativi impegni, di affrontare e risolvere problemi e avversità. Questa “comunità educante” quindi deve avere una presenza diffusa di luoghi di socialità, deve godere di aspettative positive da parte dei suoi membri, deve offrire costanti occasioni di partecipazione e strumenti di sostegno per affrontare situazioni avverse, costruire reti generazionali ed intergenerazionali di aiuto.
In situazioni di disagio si deve purtroppo constatare che il primo problema sono le famiglie, o meglio i genitori, con il paradosso apparente che in questi casi è bene che i piccoli stiano il meno possibile con i genitori, che spesso li lasciano vivere per strada. La scuola può intervenire per evitare futuri comportamenti devianti, ma può farlo a condizione che li segua da piccoli, anzi da piccolissimi. Ma anche chi vive in situazioni di povertà culturale deve poter beneficiare della possibilità di colmare il divario, altrimenti, senza necessariamente mostrare comportamenti devianti o oppositivi, è a rischio dispersione.
Una proposta è di prevedere una scuola dell’obbligo sempre della durata di 12 anni, ma a partire già dalla scuola dell’infanzia, con un tempo pieno che inizi da 4 anni e prosegua fino al termine della secondaria di I grado. Scriveva don Milani “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali”; a chi parte da una situazione di svantaggio economico e culturale si devono offrire le opportunità per colmarle e ciò deve avvenire dalla piccolissima età.
A molte scuole professionali sono stati erogati cospicui finanziamenti destinati a contenere la dispersione. Pensare che con poche centinaia di migliaia di euro in un professionale si possano recuperare le tante situazioni sopra descritte, quasi fossero studenti liceali dei ceti medio-alti che non hanno ben appreso l’italiano o la matematica, è tardivo e velleitario.
Il Meridione vede un numero di scuole del primo ciclo e dell’infanzia frazionale rispetto al Nord Italia, i ritardi di apprendimento e i numeri più elevati di dispersione e devianza ne sono l’indiretta conseguenza.
La “comunità educante” è non solo la scuola, ma anche l’amministrazione locale. Ad essa compete progettare e realizzare dei luoghi diffusi di socialità, soprattutto in quei quartieri in cui più numerose sono le situazioni di disagio e di povertà culturale, con uomini e donne in grado di svolgere i ruoli che in quei casi i genitori non riescono o non sono in grado di svolgere.
Attuare azioni come il tempo pieno per non meno di 10 anni a partire da 4 di età e costruire una “comunità educante” con una rete di sostegno e di interventi sul territorio, richiede tempo e grandi investimenti, che non possono che essere pubblici. Chi scrive è convinto che siano investimenti che vedranno un ritorno in futuro. Lo saranno in termini di una maggiore scolarizzazione, che indirettamente sarà una più ampia offerta di personale qualificato sul mercato del lavoro. Lo sarà in termini di contenimento della dispersione scolastica, considerando che la possibilità di compensare le situazioni di povertà culturale con una scuola a tempo pieno dovrebbe consentire a questi ragazzi di poter affrontare con maggiore fiducia i percorsi formativi delle superiori e, si auspica, anche universitari. Il vantaggio futuro dovrebbe esservi anche in termini di contenimento dei fenomeni delinquenziali, che in non pochi casi hanno i loro prodromi in quei comportamenti censurati che rendono così difficile non l’attività didattica, ma la quotidianità nel primo biennio dei professionali.
Quanto sopra è un progetto di medio termine che si auspica possa realizzarsi nei prossimi anni ed ovviamente non interviene nel presente. Oggi si deve aver ben chiaro che gli istituti professionali, ed in particolare il primo biennio, sono cosa ben diversa da un tecnico o da un liceo. Si deve quindi considerare che la gestione di una classe nel primo biennio dei professionali non è possibile farla avendo lo stesso numero di studenti e le stesse risorse di un liceo. Le classi non dovrebbero avere più di 10/12 studenti per rendere più semplice la gestione delle classi e con essa l’attività didattica. Le prove INVALSI mostrano enormi differenze negli esiti tra licei e professionali. Questo divario è in parte riconducibile al fatto che la gestione della classe e dei casi difficili occupa la gran parte del tempo e ne toglie all’attività didattica. Gli studenti degli istituti professionali che giungono al terzo anno, quando i casi più difficili hanno assolto l’obbligo e quindi interrotto la frequenza, è come se avessero svolto oltre un anno in meno di scuola, senza considerare il fatto che la gran parte di loro non ha alle spalle un “capitale familiare” che sia in grado di sostenerlo durante l’intero periodo scolastico.
Una cosa emerge indirettamente dalle riflessioni sopra espresse. In tempi anche relativamente recenti le attività didattiche parevano impermeabili alle contraddizioni della società, oggi ne sono invece pienamente investite. L’incapacità di società e famiglie di svolgere il loro ruolo educativo rendono il lavoro nella scuola sempre più difficile, nel caso estremamente difficile nel primo biennio dei professionali. Ambiti in cui si è dissolto il senso di appartenenza ad una comunità ed in cui gli interessi dei singoli sono divenuti prioritari rispetto a quelli della collettività chiedono alla scuola di educare al rispetto dei valori e delle regole del vivere sociale, gli stessi che al di fuori della scuola sono spesso ignorati. Famiglie assenti o pronte a difendere i comportamenti indifendibili dei figli chiedono alla scuola non solo una formazione di prim’ordine, ma anche di promuovere lo sviluppo dei valori etici, accusandola per di più di non essere in grado di svolgere quel ruolo. È l’aspetto palesemente contraddittorio per cui gli stessi attori sociali incapaci di svolgere il loro ruolo chiedono alla scuola di porre rimedio alle loro inadeguatezze. Inoltre ciò deve avvenire nel breve tempo in cui bambini e ragazzi sono a scuola. È un prodigio a cui la scuola non è ancora attrezzata.
Le analisi e considerazioni sopra esposte e l’approccio ai fenomeni devono molto alla lettura dei saggi di Erving Goffman, in particolare “La vita quotidiana come rappresentazione” e “Stigma. L’identità negata”.
Preziosa è stata la lettura di “Psicologia dell’adolescenza” a cura di Augusto Polmonari e “Devianza e controllo sociale” di Bianca Barbero Avanzini.
Un ringraziamento ad alcuni docenti che hanno insegnato ed insegnano negli istituti professionali cui ho fatto leggere le mie analisi e considerazioni e con cui mi sono confrontato.
Infine, la mia solidarietà a chi insegna nel primo biennio degli istituti professionali, per il fardello che quotidianamente portano sulle loro spalle nonostante tutto, e ai colleghi che devono gestire questo girone infernale.
Savino Gallo
Dirigente Scolastico