È un cammino difficile: il mondo delle emozioni e dei sentimenti è insidioso, poco gestibile, pieno di sfumature e poco disposto agli aut aut

«Cogito ergo sum»: queste famose parole di Cartesio hanno segnato indelebilmente la storia. Pare, difatti, che egli (magari senza immaginare le conseguenze!) fosse convinto della superiorità della res cogitans, ossia del pensiero, sulla res extensa, ossia sulla materia, sulla corporeità. E così il razionalissimo, controllatissimo mondo occidentale, figlio dello stoicismo filosofico e nipote di un certo dualismo cristiano, che da secoli vedeva (e forse vede ancora) nel corpo un segno di peccato da addomesticare, ha sancito l’inizio di un modo di concepire l’uomo assolutamente fuorviante. E ne siamo quotidianamente vittime, consapevoli o meno.

Chi si risveglia da un’educazione rigida, fatta di schemi e di moralismo esasperato, si ripromette di cominciare a seguire il cuore. Chi invece troppe volte si ritrova a piangere per le delusioni, si ripromette continuamente di essere più razionale. Cuore e cervello: gli eterni rivali. Chi non è mai incappato nel dilemma di questa scelta. Chi non si è sentito spronato almeno una volta dall’amico o dall’amica di turno a «seguire il cuore». E chi non ha mai agognato e magari raggiunto il controllo assoluto sulla propria vita affettiva, magari per lavorare o, semplicemente, vivere meglio. Passaggi obbligati.

Ma è proprio tutto vero? Siamo davvero l’unione di due compartimenti stagni che si contendono il controllo della nostra esistenza? Ed è possibile vivere di solo cuore o di solo cervello? In un caso come questo i luoghi comuni abbondano e la confusione è assicurata.

Il gap è proprio questo: credere nella possibilità di essere totalmente razionali o puramente emozionali; soprattutto convincersi che le due cose siano necessariamente alternative.
I sistemi educativi non aiutano, anzi hanno la responsabilità di aver alimentato certe convinzioni. Le agenzie formative hanno creduto e credono di poter educare al bene, alla libertà, alla rettitudine attraverso passaggi di informazioni. Peccato che possedere una precisa idea su cosa un valore buono sia non significa automaticamente farlo proprio, anzi!

Si tratta, piuttosto, di reintegrare il corpo, gli affetti, i legami nei processi educativi e formativi, investendo in quella che le neuroscienze di ultimissima generazione chiamano capacità cognitiva delle emozioni. La mente non è circoscritta al cervello; dire mente significa parlare di tutto il corpo, perché la razionalità passa quando studiamo, parliamo e pensiamo, ma anche quando tocchiamo, baciamo, abbracciamo, piangiamo, ci arrabbiamo. Non smettiamo di esercitarla mai. E se crediamo di poter essere distaccati e asettici, specie in certi momenti, per poter agire meglio e con assoluta lucidità, ci sbagliamo e di grosso!

Consigliare a qualcuno di mettere in stand-by le emozioni per poter pensare e fare scelte giuste è una bugia, un inganno spersonalizzante e irrispettoso della bellezza dell’uomo. Così come spronare a fare il contrario, a vivere in balìa delle tempeste emozionali senza riflessione e discernimento.

È un cammino difficile: il mondo delle emozioni e dei sentimenti è insidioso, poco gestibile, pieno di sfumature e poco disposto agli aut aut. Soprattutto è un mondo che spinge a muoversi, ad uscire fuori: e-mozione significa proprio questo. Lasciarsi andare è sempre un rischio; in tal senso il culto del razionalismo sicuramente ha l’indubbio vantaggio dell’autocentramento, l’inganno odierno secondo il quale il soggetto deve restare concentrato su se stesso; l’altro costituisce un problema da gestire alla meglio, un’incognita, al massimo una scommessa. Per cui meglio non farsi coinvolgere troppo!

Ma uno sviluppo cognitivo altissimo è nullo senza relazione; una postura eretta, integerrima e impassibile può assicurare il successo, ma la vera altezza la si raggiunge piegandosi sull’altro, spendendosi in relazioni coinvolgenti, in una vita emotiva densa. Come direbbe Holderlin, «dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva».

Controsenso: usi e abusi delle parole quotidiane

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FontePhoto credits: Michela Conte
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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)

1 COMMENTO

  1. Che meraviglia….Peccato che nel mondo ci sia gente divorata dall’invidia/gelosia che perde il controllo di cuore e intelletto e non riesce a cogliere la sconfinata saggezza di chi si dona in silenzio!

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