«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro 
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? 
Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’

(Inferno, XIX, vv.90-93)

Caro lettore, adorata lettrice,

non pochi di voi, dopo lo scorso “Amo gli incazzati” mi hanno scritto esortandomi ad un elogio della gentilezza: ed io vorrei accogliere tale appello, Dio sa se lo vorrei! Nondimeno, non credo sia questo il canto adatto per accogliere tale invito.

Siamo, infatti, nella terza bolgia dell’ottavo cerchio, nel luogo di dannazione dei simoniaci ovvero di quanti hanno fatto mercato della religione. Già vedo la tua riprovazione: la fede è atto d’amore gratuito, come farne mercanzia? Si compra forse, oppure si vende, un atto di amore?

Certamente no e certamente sì: è questa la risposta, contraddittoria e vera quanto il cuore dell’uomo. L’amore non si compra, eppure da sempre c’è chi ne fa mercato; la grazia è dono, nondimeno le religioni ne fanno spesso oggetto di compravendita. E, tra tutte, la religione del figlio di un povero falegname di Nazareth non ha fatto di certo eccezione: anzi, si direbbe che nei secoli si sia segnalata per la sua capacità di «puttaneggiare coi regi» (v.108).

Già nel canto settimo, nel cerchio degli avari, Dante aveva sommariamente parlato di “papi e cardinali”. Qui si fa perspicuo e di papi ne cita addirittura tre, tutti suoi contemporanei. Nell’ordine: Niccolò III, morto nel 1280, Bonifacio VIII, morto nel 1303, e Clemente VII, defunto nel 1313. Dettaglio rilevante: l’Inferno è composto a partire dal 1304 e circolava già nel 1308, quindi Dante spedisce all’inferno un Clemente VII ancora in vita e con pieni poteri, un nemico quanto mai temibile a quei tempi. Chissà quanti di noi avrebbero optato per un profilo basso e una parola più prudente, se ci fossimo trovati al suo posto: altro che gentilezza!

Peraltro, i simoniaci sono immaginati conficcati a testa in giù nella roccia, in buche circolari, con le gambe che scalciano per aria e fiamme che lambiscono i piedi, aggiungendo martirio a martirio. Niccolò III, della ricca e potentissima famiglia degli Orsini, apostrofa Dante scambiandolo per papa Bonifacio, venuto lì a spingerlo in fondo alla buca e subentrare al suo posto, ma Dante – superata l’incertezza iniziale – lo smentisce e si paragona al frate venuto ad ascoltare la confessione di un assassino prima della sua esecuzione.

Segue quindi un’invettiva che non fa sconti all’avidità di chi «il mondo attrista calcando i buoni e sollevando i pravi» (vv.104-105): schiacciare i buoni e innalzare i malvagi, è quanto più accende il nostro sdegno, ma anche il modo più facile per acquisire indebito potere e vile ricchezza. Non a caso, il poeta continua evocando la Bestia dell’Apocalisse e stigmatizzando la famigerata, quanto falsa (ma Dante non lo sapeva ancora…) donazione di Costantino, vera madre di ogni corruzione e origine del potere temporale della Chiesa.

La conclusione non lascia scampo: che differenza c’è tra un idolatra e un cristiano simoniaco? Nessuna, se non che il primo adora un solo idolo e il simoniaco molti di più:

«Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?»

(vv.112-114).

Un comico irriverente come George Carlin ha osservato: «La Chiesa cattolica è strepitosa: è riuscita a convincerci che esiste un Dio caritatevole, misericordioso, che ha creato il cielo e la terra, che ci ama, ci vuole vicino a lui, è onnipotente, e ha bisogno di soldi».

Eppure, Gesù non aveva chiesto denaro a Pietro per affidargli le chiavi della sua Chiesa. Si era limitato ad un imperativo: «Seguimi», e aveva aggiunto una domanda aperta: «Mi ami tu più di costoro?».

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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...