«Taci, maladetto lupo!
Consuma dentro te con la tua rabbia…»

(Inferno, VII, vv.8-9)

È la rabbia il protagonista del settimo canto: una rabbia che consuma tanto Pluto, il guardiano infernale che Virgilio chiama «maledetto lupo» (v.8), quanto gli avari e i prodighi, la cui condizione è narrata nella parte centrale del canto; la rabbia, è ovvio, caratterizza anche gli iracondi, descritti a fine canto come «genti fangose …ignude tutte, con sembiante offeso», le quali si percuotono non solo con le mani, ma anche col petto e con i piedi, arrivando a strapparsi l’un l’altro le carni a morsi (vv. 110-114).

Mi sovvengono parole di dubbia origine (c’è chi le attribuisce a Buddha, chi a Shakespeare, chi a Mandela…), ma di sicuro effetto: «Serbare rancore equivale a prendere un veleno e sperare che a morire sia l’altro».

Ancora una volta, padre Dante sembra vivere e parlare proprio per noi e ai giorni nostri: il rancore come veleno, l’avidità come veleno, la necessità di sperperare come veleno, mi pare essere questo il focus del quinto cerchio infernale, quello in cui siamo in questo momento.

Un cerchio affollatissimo, in verità, dove padre Dante vede «gente più ch’altrove troppa» (v.25), tutti «guerci de la mente», accecati nella facoltà di pensare, tanto che «con misura nullo spendio ferci»: i quali non seppero mai spendere con misura, sia che fossero avari – e quindi non spendessero affatto, neanche quando necessario – sia che fossero prodighi – e dunque spendessero e spandessero a profusione (vv.40-42).

Gli uni e gli altri ciechi, ma mai al pari di «papi e cardinali» (v.47): avidi e avari quant’altri mai. Padre Dante arriverà, più avanti non ora, a fare i nomi dei papi dannati o destinati a futura dannazione, a cominciare dal famigerato e a lui contemporaneo papa Bonifacio VIII. Qui il “ghibellin fuggiasco” si limita a denunciare due vizi contrapposti dei chierici, avarizia e prodigalità, simboleggiate dal «pugno chiuso» e dai «crin mozzi» (i “capelli tagliati”, v.57), mentre li vede rotolare col petto massi pesanti in direzioni opposte, sino a scontrarsi e maledirsi con ogni sorta di ingiuria.

Quel che più rattrista in questo scenario disumanizzante è che ci troviamo davanti a persone che per via del «mal dare e mal tener» hanno perso il «mondo pulcro» (vv.58-59): hanno perso il mondo bello, il paradiso di Dante, ma anche la bellezza di questo mondo. Perché non vive veramente chi è prigioniero del suo “pugno stretto”, sempre alla ricerca di come acquistare o spendere soldi. Ecco, proviamo a dirlo così: proprio non vive, chi è schiavo dei soldi.

Nel prosieguo del canto, Dante lo ripete a modo suo: la Fortuna, non è una dea bendata, come crede erroneamente la maggior parte degli uomini; è anch’essa strumento nelle mani di Dio – noi diremmo della Vita – che dovrebbe insegnarci a non abbatterci nella disperazione e a non esaltarci nel successo: perché tutto passa e di tutto dovremmo essere grati, da nulla dovremmo farci definitivamente schiacciare, per nulla dovremmo farci ciecamente inebriare.

Nondimeno, chi è avido, chi è scialacquatore, chi è iracondo, misero lui, non conosce la bellezza della gratitudine, non gli dà allegria il sole, cova dentro ira inespressa, un “fumo accidioso”, vive immerso nel fango nero della palude Stigia. È proprio un dannato che si condanna:

«Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidioso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra».

(Inferno, VII, vv.121-124).

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FontePhotocredits: pixabay.com rivisto da Eich
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...