«Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso 
vidi gente attuffata in uno sterco 
che da li uman privadi parea mosso»

(Inferno, XVIII, vv. 112-114)

Eccoci all’inizio della seconda parte della prima cantica, ormai al centro dell’Inferno. Dante osserva l’enorme baratro in cui è sprofondato, «tutto di pietra di color ferrigno» (v.2), e lo paragona ai fossati dei castelli medioevali.

In questo canto scopriremo le prime due bolge, occupate la prima da ruffiani e seduttori e la seconda da adulatori. La pena che subiscono è davvero ignominiosa: ruffiani e seduttori nel mondo si erano vestiti di frode, qui, mentre procedono in schiere opposte, sono nudi e frustati sul fondoschiena da demoni cornuti; dal canto loro, gli adulatori sono sprofondati nello sterco e si percuotono con le loro stesse mani, sporche di letame.

Ruffiani e seduttori non vanno confusi con i lussuriosi e, dunque, la loro pena è ben peggiore di quella di Paolo e Francesca: un conto è cedere alla passione amorosa, un altro è ingannare al fine di soddisfare le voglie altrui (è il caso dei ruffiani) o proprie (è il caso dei seduttori). Lo stesso dicasi per gli adulatori, che raggirano i potenti per il proprio vantaggio personale: alle loro parole untuose e melliflue fan da contrappasso gli escrementi e la latrina in cui ora galleggiano.

In ciascuna bolgia Dante fa due incontri, uno con un personaggio contemporaneo e un altro con una figura mitologica: nella prima bolgia cita il ruffiano bolognese Venedico Caccianemico e il re Giasone. Il primo, che fa di tutto per non farsi notare, confessa di aver venduto sua sorella Ghisolabella ai capricci sessuali di Òbizzo II d’Este; il secondo, seduttore e fedifrago per eccellenza, è reo non solo di aver sedotto e abbandonato la grande Medea, ma anche la fanciulla Isifile, lasciata al suo destino mentre era ancora incinta.

Nella seconda bolgia, l’adulatore lucchese Alessio Interminelli è suo malgrado svelato da Dante e accostato all’esempio abominevole della prostituta Taide, protagonista dell’Eunuchus di Terenzio e capace di adulare il soldato Trasone pur di procurarsi una schiava.

Una nota particolare per il linguaggio usato nel canto. Già sappiamo che Dante adotta una lingua viva e vivace, mescolando i generi, dal più aulico al più basso: niente a che fare con il purismo di Petrarca, la lingua di Dante è lingua parlata da ogni classe sociale, non il lessico selezionato, rarefatto e disincarnato degli eruditi e personalmente proprio per questo la prediligo.

Ma in questo canto Dante si supera, lasciando libero sfogo alla collera che non va alla ricerca di giri di parole: sterco (v.113), privadi (“latrine”, v. 114), merda (v.116), unghie merdose (v.131), Taide la puttana (v.133) mi sembrano esempi eloquenti di quanto la parola si accordi allo sdegno nei confronti di chi fa della frode il proprio costume.

“Quando ci vuole, ci vuole”, si usa dire con espressione gergale, per l’appunto, e proprio qui si aggancia la riflessione che desidero affidarti.

Viviamo, non c’è dubbio, nella società della comunicazione, della cura estrema dell’immagine, della scelta oculata delle parole. È la stessa società, a me pare, regno dell’ipocrisia. Si comunica ciò che lusinga, si trasmette ciò che non disturba, si pronunciano parole che non dicono.

“Odio gli indifferenti”, predicava invano Gramsci: “Amo gli incazzati”, mi permetto di aggiungere.

Amo gli incazzati: chi si schiera, chi si sbraccia, chi perde la misura, chi si sbatte, chi lo fa per una causa che sia nobile, perlomeno più grande del suo meschino orizzonte, magari una causa comune.

Caro lettore, adorata lettrice, so che ora stai pensando ai politici, agli uomini di potere, alle star della TV o del jet set: evidentemente, non mi sono ancora spiegato.

È dello sdegno della gente di tutti i giorni che sento la mancanza. Perché la mancanza di sdegno è, innanzitutto, mancanza di passione, miastenia di ideali. Mancanza mia e tua. Morte comune. Né lo sdegno va confuso con la rabbia: quella è altra cosa, roba da cani che, per inciso, spesso son meglio degli umani.

Stendhal: «La passione non è cieca, è visionaria». Georges Bataille: «La passione è ricerca di un impossibile». E Vincent van Gogh: «Preferisco morire di passione che di noia».

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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...