»I grandi amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: “Qual è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?”. Ma vi domandano: “Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?”. Allora soltanto credono di conoscerlo»

(Il Piccolo Principe, A. de Saint Exupery)

Ho assistito ad un inatteso confronto-condivisione su faccende legate a questioni professionali, fra due persone molto preparate, che si occupano di qualcosa che non ha niente a che fare nemmeno con la parte più remota di qualsiasi cosa io avrei potuto pensare di fare in questa ed in altre sei vite.

In sostanza, essendo presente (volente o nolente), all’inizio ho tentato di seguire il filo conduttore perlomeno per un fatto personale: ascoltare ciò che non ti appartiene è comunque un modo per imparare qualcosa, fossero anche solo termini tecnici di un lavoro diverso.

Dopodiché non so bene cosa sia accaduto alla mia testa, perché se ci ripenso la sensazione è quella di aver avuto una mano invisibile nel cervello che deve letteralmente aver staccato la spina: mi ricordo solo di aver guardato l’orologio sul muro ed aver notato che era trascorsa almeno un’ora, mentre mi sono ritrovata a fare cose così come mi venivano in mente. Avevo anche lasciato la mia posizione seduta, senza proprio essermene resa conto.

Ora, fino a che la corrente cerebrale è rimasta spenta, fino a che il mio cervello si è autonomamente estraniato, non ho avuto nessuna sensazione di disagio: dopodiché i miei neuroni devono aver temuto di finire energia ed ossigeno. Sarà per questo che la spina si è riattaccata facendomi rendere conto di tutto: sessanta minuti trascorsi senza motivo, io che ero automaticamente passata a sbrigare faccende varie senza essere minimamente connessa (sarà stato spirito di sopravvivenza) e la lucidità improvvisa che ad ogni tre parole “tecniche” aumentava di sei tacche il livello di intolleranza.

Ciò che mi fa riflettere è la forza motrice in difesa dello spirito di conservazione, che ha spinto il mio cervello a “non esserci”: parlavano di percentuali, di guadagni, di importanza data a certi ruoli professionali nel loro ambiente, rispetto ad altri; parlavano di benefit, soglie, rimborsi, obiettivi, premialità, liquidazioni, variabili, negoziazioni.

Ecco, mi sembra chiaro che in realtà le mie orecchie stessero ascoltando e anche molto bene, direi troppo.

Chiarisco, discorsi del genere alla presenza di chi come me vive di una professione dove i guadagni fanno ancora abbastanza ridere nonostante la responsabilità incalcolabile, non esiste il concetto di meritocrazia, dunque non esistono premi, incentivi, spinte motivazionali. Tutto ciò che serve alle persone come me per lavorare, tutti i mezzi, sono un problema nostro e lasciamo stare… era chiaro che per me tutti quei conti fossero la strada perfetta per l’alienazione.

Per un fatto proprio pratico, professionalmente appartengo ad un universo parallelo.

In buona sostanza, credo, mentre quelle due persone parlavano di numeri e di ruoli, non hanno mai parlato di persone. Persone intese nel senso stretto del termine.

Eppure, dico io, è sempre questione di conti: ciò che fai conta, ciò che non fai conta. Bisogna saper contare.

Ma no, il senso che serve a me per rimanere presente e non sentire l’orticaria salire dalle caviglie alla giugulare è di un altro pianeta in certi casi.

Anche il verbo contare con me non funziona normalmente.

Niente, è colpa mia.

Non ce la posso fare.

Come conta il mondo, io non so contare.

E quello che per il mondo conta, non conta per me.

Chi nasce tondo non può morire quadrato.

Sogno una villa con la piscina da sempre, dico da sempre che potrò permettermela solo quando vincerò una grossa somma al gratta e vinci, ma non gioco perché non mi piace e perché non sono abituata ad avere mai niente in regalo: mi sono sempre dovuta sudare tutto.

Ma come pretendo di non estraniarmi?

Rido con me per oggi, non di me.

Mi concedo un momento di grazia.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.