Lettera aperta di Tiziana al suo papà, il dott. Nino Lanciano

Caro papà,

scriverti risponde al mio bisogno profondo di incartare il dolore con le parole, come se retto dalle lettere fosse meno abissale, più ordinato, più comprensibile. Sono già trascorse diverse settimane da quando tu non ci sei più e il mondo mi si è donato in bianco-e-nero.

Non voglio sfuggire da questa sofferenza, voglio sentire la tua mancanza appieno perché riempie il vuoto delle mie giornate. Attendo di integrare questo dolore che adesso è troppo scisso, attendo che sia più dolce e vada in sottofondo. Queste improvvisate in superficie esposta a raggi di realtà sono devastanti. Il dolore arriva come un ladro, all’improvviso, mentre sono distratta in piccole quotidianità, mi rapisce dalla bocca dello stomaco premendo una mano sul petto e sulle labbra per non farmi respirare. Mi porta ovunque, in giravolte pindariche, per poi abbandonarmi esanime un ricordo più in là. Questa traversata di dolore devo farmela tutta, e devo farmela a passo lento con occhi e cuore aperto. Non sono ammesse corse. Anzi, spesso su alcuni dolorosi passi si torna indietro. Più e più volte.

‘Vorrei parlare con la psicologa, non con mia figlia’ – esordivi ultimamente nelle nostre telefonate. Da quando, da medico, ti eri convertito alla mia professione sembrava che risolvessi ogni cosa cercando di dare ascolto alla mente. Ho provato a darti tutti i miei strumenti e tu incuriosito ti piegavi ad ascoltare le mie spiegazioni psicologiche alle tue esperienze di vita. Ti piaceva questo nuovo gioco di prospettive. Era il nostro piccolo spazio vitale, era la continuità della nostra relazione. Sembrava che di me non ti dovessi preoccupare più, ai tuoi occhi ero realizzata e potevo badare a me stessa, e anche a te. Fino a quel maledetto giorno del 20 febbraio, giorno in cui mi hai perso, giorno in cui mi sono persa. Mi sono sfilata dalle vite di molti, inclusa la tua, perché dovevo occuparmi della mia e portare la testa al sicuro. Non sono più riuscita a dispensare consigli, a parafrasare ogni tuo vissuto emotivo e a restituirtelo meno carico e più tollerabile. Mi sono piegata e chiusa nella mia nuova altezza e so che tu hai sofferto tanto. Hai sofferto l’impotenza da padre e da medico, hai sofferto la mia frustrazione, la mia rabbia, la mia assenza.

A parte qualche faticosa visita sporadica e le telefonate per tenere insieme i fili di una normalità assurda, te ne sei andato via così, in questo nuovo capitolo della nostra storia. Quando sei morto io non c’ero e chissà che tu non lo abbia fatto volutamente. Però poche ore prima avevi visto un video in cui iniziavo a muovere alcuni passi con il girello. Forse era quello che volevi sapere prima di andare via, per sempre.

Da settimane, come una litania, racconto meccanicamente che mio padre è morto e spesso questo racconto è impersonale e distante, come un qualunque figlio che riferisce di aver perso un padre. Poi ci sono istanti fulminei in cui realizzo che ho perso te papà, quel viso, quella voce, quell’intonazione, quegli intercalari, quelle mani. Tu in tutto quello che significhi per me. Allora vado in caduta libera in un dolore senza pace. Io il tatto delle tue mani me lo ricordo papà, come il rumore della tua voce nelle nostre vite. Mi hai amato infinitamente, sono piena di te e del nostro amore.

Guardo costantemente il registro delle chiamate sul mio cellulare e ad ogni simbolo di cornetta rossa per una chiamata non risposta mi parte una fitta lacerante che mi oltrepassa, mi oltrepassa un peso di colpa per non averti richiamato, per non aver colto l’occasione di chiamarti una volta di più, per non aver sentito la tua voce ancora e ancora. Eh già, perché avrei potuto solo sentirti … per vederti avresti dovuto aspettarmi. Ma la verità è che delle cose bisogna farne esperienza perché pensarle e anticiparle non basta. E mentre cerco le parole mi arrivi nella testa e immobilizzi tutto come una tavola di olio e posso solo sentire il dolore dentro, non c’è altro. C’è solo un senso di impotenza devastante dinanzi al quale posso solo curvarmi e lasciare che mi attraversi.

So che io, mamma, Angela, Giuseppe e i tuoi nipoti ti ritroveremo in tutto quello che ci hai dato e che saremo, ti scopriremo in ogni nostro gesto e in ogni nostro movimento. La tua presenza ci custodiva e ci proteggeva; all’ombra del tuo nome, della tua figura e del tuo amore ognuno di noi trovava riparo. Porteremo avanti quello che volevi per ciascuno di noi e cercheremo di liberarci di ogni stortura o capriccio in cui secondo te inciampavamo. Quando eravamo tutti a tavola a pranzo tu esclamavi sempre ‘eccola qui la mia bella famiglia tutta riunita’, come se osservassi estasiato una tua creatura. Avevo sempre fretta di andare via da quei pranzi che spesso mi annoiavano ma poi ti osservavo intrattenerti nelle parole, mentre un amaro ti liberava i ricordi. Volevi solo questo, vivevi solo per questo … averci accanto. E mi hanno sottratto a te in questi ultimi interminabili mesi.

Andando via sembra che tu mi abbia lasciato la tua forza, l’impossibilità oggettiva che solo la morte conosce mi ha mosso verso nuove possibilità: il bisogno di mostrarti che cammino; il bisogno di riscattare il tempo che ci è stato tolto; il bisogno di levarti di dosso la malinconia e l’impotenza per la mia condizione. Fare riabilitazione, stancarmi, affaticarmi, sentire dolore adesso è la strada per gestire il vuoto e ricordarmi che il senso di tutto questo sentire ora è nell’obiettivo di tornare a camminare. E ad ogni passo che faccio muovo lo sguardo per cercare nell’aria il segno che tu mi abbia visto, ovunque tu sia.

Vorrei chiamarti papà e dirti che ti ho perso, so che sapresti consolarmi.

Per sempre tua, Tiziana