L’ultimo esempio: le affermazioni di Marcello De Angelis sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980

Orfani di memoria. Sì, gli italiani non amano la memoria. Cerchiamo di cancellarla, cerchiamo di annullare tutto quanto sa di ricordo, specie della nostra storia. Scomoda la memoria personale, si immagini quella collettiva, pervasiva nell’inconscio degli italiani che mai hanno superato i traumi di una guerra civile come è stato il post 8 settembre 1943, che non hanno superato Piazzale Loreto ricordata come data bellissima o vergognosa a seconda delle parti, che mescolano Shoah e Foibe, che ancora non sanno comprendere le cause degli eventi e i loro risvolti. Questo solo per fare facili esempi, divisivi e nel loro esprimersi anche distruttivi. Ma siamo anche gli italiani che per anni hanno cancellato il 2 giugno, estromesso per motivi di cassa dalle feste civili, pur essendo forse l’unico vero momento capace di unire i diversi colori della nostra Nazione. Le fasi cruciali della nostra storia sembra che vogliamo rimuoverle dalle coscienze e dal nostro vissuto, tendiamo anche a incaponirci su dettagli inutili del presente, senza capire i risultati profondi che i processi storici hanno dal loro nascere fino ad oggi. Esistono meccanismi, sofisticati in apparenza ma semplici nella sostanza, con cui la storia sembra palesarsi sempre e comunque come storia di una parte o dell’altra della politica odierna. Non è un caso che esistano in Italia persone che credano ciecamente al fatto che l’Acquedotto pugliese sia stato pensato e iniziato nel Fascismo (e non nel periodo dell’Italia di fine Ottocento) o che credano che i gulag non siano mai esistiti. Siamo orfani di memoria dicevo, ed essere orfani significa non avere più una madre, la capacità di ragionamento e un padre, il Vero dei fatti. Naturalmente, fra un giudice e uno storico la differenza è elevata, ma capita che a volte il primo faccia lo stesso lavoro del secondo, ricostruendo eventi e situazioni lì dove manchino prove specifiche, magari anche in maniera grossolana[1].

L’esempio ultimo delle affermazioni di Marcello De Angelis sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 sta lì a dimostrarlo. Basta navigare sulla pagina Facebook di chi ha dichiarato questo per renderci conto di come voci, tutte diverse, sembrino alzare veli sconosciuti all’ignaro utente, dal coinvolgimento del presidente Usa dell’epoca Carter, miracolosamente salvo da un avvelenamento per mano di cuochi italiani, alla presenza di trame oscure che vedrebbero un terrorista internazionale nella città emiliana. Non manca la replica di libertà di espressione dell’Autore, su un evento circostanziale della storia repubblicana in cui i presunti colpevoli sono da lui giudicati innocenti. Ci sarebbe altro ma non è il contesto per riportate epiteti coloriti ed espressioni volgari. Il succo e l’intento è qui riflettere sull’uso che della storia si fa, qualunque parte politica lo compia.

Verità indicibili vengono proposte ora da esponenti della destra e ora da esponenti della sinistra (che poi…esiste ancora la validità di tali categorie?) e si crede che l’opinione pubblica ne venga sconvolta. Tutte le verità sono apparentemente valide, raccontate nella maniera giusta per il cittadino che non ha i filtri del ragionamento critico. Ma purtroppo non è così.

L’ansia estiva dei telegiornali e delle testate dei quotidiani, prese moltissimo dal surriscaldamento globale, dalle ansie per le vicende giudiziarie sportive, dal gossip spicciolo e ogni tanto dalla tragedia ucraina, poco spazio significante hanno dato a quanto detto da De Angelis. Sì, certo. Tanti articoli, anche servizi televisivi ma poca incisività, poco giudizio effettivo sul fatto che una stragrande maggioranza di italiani ha dimenticato o vuole dimenticare, che molti ragazzi in età scolare non sanno e mai sapranno cosa accadde in quella giornata a Bologna. Forse è proprio il commemorare, dirlo alla stessa maniera, con le stesse modalità il problema. Manca la coscienza civica di cercare un tassello in più di verità, manca la competenza di studiare quella strage. Una commemorazione è qualcosa che alla fine non educa a pensare, ma educa a tramandare un qualcosa di ripetitivo, stile onomastico o compleanno. Siamo lì a piangere e non a tentare di fare i conti con la nostra storia. La strage si perpetua ed è dei ricordi, messi in un angolo ad ammuffire, fra depistaggi e complottismi, fra applausi e sirene dei treni che si accendono. Tutto giusto, ma quelle vittime, di cui a volte non restano nemmeno resti umani nelle bare alle riesumazioni, vengono tradite. In mezzo i parenti delle vittime, prigionieri delle incertezze che sembrano non allontanarsi nemmeno dopo tanti anni di processi e inchieste. Costretti magari ad ascoltare per decenni istituzioni che non hanno nemmeno la più pallida idea, nei propri rappresentanti delegati a parlare, di quanto avvenne. Si giunge alla destabilizzazione della verità, si riapre quella cicatrice mai davvero riparata. Il problema vero è la nostra memoria e la trasmissione della stessa, che ai ragazzi a scuola questa storia non la insegna, inseguendo programmi elefantiaci, in cui anche le ore di storia sono tagliate perché considerate non al passo con i tempi, in cui devi fare tutto e il contrario di tutto in archi di tempo simili alla velocità della luce nella relatività einsteniana. Pensiamo a come abbiamo ridotto le commemorazioni come quelle dedicate alla Shoah. Nonostante siano tanti anni che se ne parla in molti non ci credono, addirittura inneggiano ai Protocolli dei Savi di Sion come se non fossero nati nella Russia degli zar. Possibile?

Abbiamo ridotto le commemorazioni a un 2 novembre continuo, esteso a ogni evento luttuoso della storia in cui, portati i fiori alla lapide, poco importa del significato stesso di quel gesto. Oggi 27 gennaio, poi il 10 di febbraio, poi il 16 marzo, poi il 9 maggio, poi il 23 maggio, poi il 19 luglio, poi il 2 agosto e varie altre date, tutte diverse. Sembriamo un cimitero del tempo, dove se non superiamo il dolore del lutto è perché lo perpetuiamo senza elaborarlo. Un anno della nostra vita così diviene una lista di ricordi spesso privi di contenuto e di immagini per un diciottenne odierno. Un sentito dire, ridondante per la maggioranza dei ragazzi, salvo chi si è già impegnato a studiare e sente la responsabilità. Ma è come se fossimo a un evento da ricordare, con foto, canti, marce e poi oblio assoluto. Ci si vede il prossimo anno.

Abitudini insomma, senza approfondimento, mancanti di una volontà di connettere come in un puzzle i tasselli giusti. Esisterà sempre chi negherà la verità delle cose come ci sono state raccontate. Ce ne dobbiamo fare una ragione. E a volte potrebbe pure avere ragione, come in alcuni casi giudiziari riaperti e capovolti. Ma purtroppo il disconoscimento della verità, quella giusta, quella esatta, q avviene quando nelle nostre disquisizioni storiografiche manca la capacità critica, il discernere il vero e le fake news nelle fonti. Esiste un uso politico della storia, dagli Alberto di Giussano creduti personaggi effettivamente esistiti alla dimenticanza di eccidi come quelli di Porzus o alle morti dopo il 25 aprile 1945 dovuti a odi e contrasti mai sanati. Ogni fonte, anche quella sbagliata, diviene documento effettivo e valido, capacità di scardinamento di ogni pensiero già definito. Il problema è non cascarci e i meccanismi ormai conosciuti della psicologia sociale lo definiscono. Bloch lo insegnava. Ce lo ha mostrato la pandemia da cui siamo usciti, dove vaccinisti e antivaccinisti sono divenuti portatori di interesse politico, dove fonti diverse si sono accavallate, proprio come era accaduto nella pandemia della Spagnola del 1918-20 quando venivano accusati ora i tedeschi, ora gli ebrei, ora i pappataci, ora un batterio perché non si conoscevano ancora i virus ma si immaginavano solamente.

Di fonti oggi ne hai quante ne vuoi, prese dalla mole di documenti, sempre disponibili anche online, ma mai letti. Serve quindi davvero una educazione civica che parte dall’uso vivo del tempo? Aldo Moro nel 1958[2] scriveva

Dal fatto al valore è l’itinerario metodologico da percorrere. Per gli allievi idee come Libertà, Giustizia, Legge, Dovere, Diritto, e simili solo allora saranno chiare e precise, quando le animi un contenuto effettivo, attinto alla riflessione sui fatti umani, si che l’io profondo di ciascuno possa comprenderle e sia sollecitato a difenderle con un consenso interiore, intransigente e definitivo.

La domanda vera è cosa resti di idee come quelle esposte da Moro, lì dove abbiamo relegato la storia a semplice ricordo morto, nel caso di Bologna piazzato in mezzo alle vacanze per ovvi motivi di rimembranza. È giusto ricordare ma anche giusto studiare e non affannarci a raccontare quanto accaduto come ripetizione stanca e di corsa perché c’è da finire il programma. Pedagogicamente, gli sforzi devono andare verso curriculi (e qui il bravo prof. Antonio Brusa, grande esperto di didattica della storia è un maestro) che non mettano fra parentesi il periodo fra il 1945 e l’oggi. Se si tolgono i fatti si toglie anche il loro valore, se si annullano gli eventi essi appariranno come una semplice data da portare a memoria, utile magari a superare i test. Dobbiamo assaporarci, direbbe qualcuno, al sugo della storia e ai filamenti dei suoi spaghetti, che possono fare schizzare il sugo dovunque, anche addosso, ma che non vedi l’ora di mangiare. Il mio invito è non inveire contro affermazioni paradossali, espressi a ogni giornata del ricordo di un evento della storia. Ma è quello di metterci noi stessi in ricerca, studiando tutta la marea di informazioni che abbiamo, non stancandoci di quella sete di verità che tutti abbiamo. Ci manca il tempo? Ma non studieremmo forse il tempo? E quel tempo a dare sostanza al nostro vissuto. Portare a scontri da trincea non aiuta la memoria a essere viva, ma la si imprigiona in categorie attuali, senza capirne la portata. Ecco perché la scuola la storia deve insegnarla, spiegarla, farla vivere. Senza ammazzarla con un voto da mettere ascoltando pappardelle in bianco, e non spaghetti sguscianti, inutili e noiose.

[1] Rimando al saggio di Francesco Mores e Gianmarco De Angelis, Il giurista e lo storico, in AA.VV., Il Falso e la storia. Invenzioni, errori, imposture dal Medioevo alla società digitale, a cura di Marina Gazzini, Quaderni n.38, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2021. Nel saggio viene studiato il tema fra nel confronto fra Bloch, Calamandrei e Ginzburg.

[2] Programmi per l’insegnamento dell’educazione civica negli istituti e scuole di istruzione secondaria e artistica (GU Serie Generale n.143 del 17-06-1958).


Fontehttps://www.ferrovie.info/index.php/it/archivio/archivio-news-2019/10431-ferrovie-2-agosto-1980-2-agosto-2019-bologna-non-dimentica
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Antonio Cecere (1980), docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Tito Livio di Martina Franca. Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari nel 2004, con relatore il prof. Francesco Fistetti e una tesi in Storia della filosofia contemporanea su Karol Wojtyla. Appassionato di Bioetica, ha conseguito il Master in Bioetica e Consulenza filosofica a Bari e il Master in Bioetica per le sperimentazioni cliniche e i Comitati etici presso il Politecnico delle Marche oltre a vari perfezionamenti di ambito pedagogico e didattico. Impegnato nella Cisl Scuola, è in Azione Cattolica per cui attualmente coordina il Mlac di Taranto come incaricato. Socio Uciim, insegna filosofia anche agli adulti presso l’Università popolare Agorà di Martina Franca. Fra le sue passioni lo studio della storia, il calcio e la musica rock. In passato, oltre che clown terapeuta presso l'asssociazione Mister Sorriso di Taranto, è stato anche conduttore di programmi radiofonici. Presso il Liceo Tito Livio, da qualche anno, coordina il Progetto Percorsi di Bioetica per avvicinare, attraverso modalità didattiche innovative e con la collaborazione di esperti esterni, gli allievi alla cittadinanza bioetica. Ideatore di vari caffè filosofici nella provincia di Taranto e in Valle d'Itria.