Una lettera apostolica di Papa Francesco per Dante

«Dante non ci chiede, oggi, di essere semplicemente letto, commentato, studiato, analizzato. Ci chiede piuttosto di essere ascoltato, di essere in certo qual modo imitato, di farci suoi compagni di viaggio, perché anche oggi egli vuole mostrarci quale sia l’itinerario verso la felicità, la via retta per vivere pienamente la nostra umanità, superando le selve oscure in cui perdiamo l’orientamento e la dignità». Con questo auspicio si chiude la lettera apostolica Candor lucis aeternae che Papa Francesco ha voluto dedicare alla figura di Dante Alighieri a settecento anni dalla sua morte, e pubblicata non a caso il 25 marzo, giorno in cui la tradizione cattolica fa coincidere la creazione del primo uomo Adamo, l’annuncio della nascita di Cristo e della Sua morte, e che quindi Dante sceglie per l’inizio del suo viaggio ultraterreno.

La lettera del Papa raccoglie e distilla alcuni fra i temi più profondi e attuali che il poeta ci ha lasciato nella sua Commedia, e che oggi meriterebbero di essere particolarmente meditati: il desiderio quale motore della «nostra vita» (Inf. I, 1) e spinta verso la felicità, la misericordia di Dio nel suo rapporto con la libertà umana, il ruolo della donna, l’urgenza della povertà e la speranza. Lascio al lettore il piacere di leggere l’intero documento.

Qui vorrei solamente sottolineare due temi, quello del desiderio e della misericordia. Riguardo al primo, Papa Francesco scrive che «Dante sa leggere in profondità il cuore umano e in tutti, anche nelle figure più abiette e inquietanti, sa scorgere una scintilla di desiderio per raggiungere una qualche felicità, una pienezza di vita» (n. 4). Giustamente Francesco collega il desiderio, quale spinta che tiene in vita l’uomo, al raggiungimento della felicità. Per Dante, infatti, «ciascun confusamente un bene apprende / nel qual si queti l’animo, e disira; / per che di giugner a lui ciascun contende», così come scrive in Purg. XVII, non a caso al centro esatto del poema, come messo in luce da Singleton. Dante, lui che ha dovuto rinunciare a tutte le sicurezze e ai suoi affetti più cari; lui che ha dovuto guardare la sua amata Firenze dallo stretto confine dell’esilio, afferma che il cuore non si queta (si noti il verbo caro ad Agostino: «inquetum est cor nostrum donec requiescat in te») fino a quando non abbia trovato ciò che veramente lo appaga. E in questa ricerca capita che esso confonda un bene piccolo con il Bene sommo, quello che lo può appagare definitivamente. Non è anche questa la nostra esperienza? Certo, il porto sicuro del cristiano Dante è Dio, definito «quel mare al qual tutto si move» (Par. III, 86) e quel «ver in cui si queta ogne intelleto» (Par.  XXVIII, 108, anche qui il quetare agostiniano). Ma prima ancora dell’indicazione dell’approdo, Dante ci chiede di non evitare di metterci in viaggio per «l’alto mare aperto», trovando il coraggio di lasciare i nostri ormeggi per cercare e finalmente trovare ciò che veramente ci rende felici; egli ci mette in guardia dall’anestetizzare questa ricerca, dal far finta che si possa vivere anche rinnegando questa sete. Prima ancora di darci risposte, Dante ci chiede di tenere in vita le domande.

Quanto alla misericordia, si può ben dire che qui Dante e il Papa trovano una profonda convergenza. Nella Commedia il poeta annuncia senza sosta lo scandalo della misericordia, la novità evangelica di un Dio che accoglie tra le sue braccia re Manfredi, reo di «orribil…peccati» (Purg. III, 121) ma capace di volgersi a Dio poco prima di morire, e salva «per una lagrimetta» il peccatore Bonconte. Allo stesso modo, Papa Francesco ha messo al centro del suo pontificato l’annuncio della misericordia, esprimendola non solo a parole ma anche con potenti gesti, come l’ultimo in ordine di tempo, la celebrazione della messa in Coena Domini in casa dell’ex cardinal Becciu, o le continue visite ai carcerati ai quali annuncia l’amore di Dio che è più grande dei loro sbagli.

Rinnovare la consapevolezza della propria miseria – «miserere di me» è la prima parola di Dante personaggio nella Commedia – e saper provare miseria per il cuore dell’altro, secondo l’etimologia della parola misericordia. È la compassione, così come scrive il poeta nel quinto canto dell’inferno, non a caso facendo cadere la terzina esattamente al centro del canto, a mo’ di cerniera che separa i primi 69 versi dedicati alla rassegna dei personaggi lussuriosi della storia e della letteratura, dai restanti 69 che raccontano l’incontro con Paolo e Francesca:

Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. (Inf. V, 70-72)

Ecco la grandezza di Dante, capace di immedesimarsi nell’altrui sofferenza per farsi portavoce della dignità di ogni vita e della possibilità di «cambiare, di convertirsi, di ritrovarsi e ritrovare la via verso la felicità» (Candor Lucis Aeternae 5).