
«Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona».
(Inferno, V, vv.103-105)
Caro lettore, adorata lettrice,
il titolo di questo nostro caffè potrebbe averti sorpreso. Quando si immagina di collegare la parola “pietà” a qualcos’altro, di solito, può venire in mente la Pietà di Michelangelo o la pietà per chi è misero e indifeso: proprio come il corpo di Cristo crocifisso e deposto tra le braccia di sua madre. Di certo, non verrebbe di pensare che l’inferno possa essere tempo e luogo di pietà: ma Dante è capace di pensare fuori dagli schemi, sa trovare pietà anche all’inferno e te lo avevo preannunciato a proposito del canto quarto.
Un paio di note preliminari a beneficio di chi non ha familiarità con la Divina Commedia.
Prima nota: per Dante, come per tutto il Medioevo, i numeri hanno un valore simbolico, non li usa mai a caso, specie quando si tratta di porre in evidenza una parola o un verso. Ad esempio, tre è il numero della Trinità. Tre e i multipli di tre, a cominciare da nove, che è tre al quadrato, vanno dunque usati con estrema cura. Lo stesso dicasi per la somma delle cifre di un verso che comunque riconduca a tre. Ad esempio, verso 117: uno più uno più sette fa nove che è tre per tre. Annota e andiamo avanti. Anzi no, prima è bene ricordare: a parte il canto proemiale, che fa conto a sé, l’intera Divina Commedia è composta da tre Cantiche, di trentatré canti ciascuna, tutti scritti in terzine, cioè in gruppi di tre versi…
Seconda annotazione: conviene sempre fare attenzione a quanti versi abbia un canto e in quante parti sia diviso. Spesso Dante lo suddivide in due sezioni e te ne accorgi da cosa scrive nel verso centrale. Nel caso del quinto canto i versi sono 142 che diviso due fa 71: incomincia a immaginare quale possa essere la prima parola del verso 72, esattamente al centro del canto…
Che il canto quinto sia suddiviso in due sezioni te ne accorgi già ad una prima lettura. I versi 1-71 sono occupati dalla descrizione di quello che accade nel secondo cerchio, che poi è il primo che, dall’antinferno e dal limbo, porta finalmente Dante dentro l’inferno. Qui egli incontra Minosse, giudice infernale che ascolta le confessioni dei dannati e li spedisce ciascuno al suo cerchio: più grave è il peccato, più giù viene sprofondato il condannato. E già si offre una considerazione: se i lussuriosi sono i primi dannati che Dante incontra, e tutti gli altri sono più giù, vuol dire che la lussuria è da lui considerata il meno grave dei peccati.
Ad ogni modo, Dante, in questa prima parte del canto, non fa loro sconti. Sottolinea che si trova in luogo «d’ogne luce muto» (v.28), ove sono «dannati i peccatori carnali» (v.38), i quali «bestemmiano quivi la virtù divina». Decisamente, nessuno sconto. La descrizione della loro condizione ricorda molto quella degli ignavi nel canto terzo. Sono sbattuti «di qua, di là, di giù, di su» (v.43) da una «bufera infernal, che mai non resta» (v.31), senza alcuna speranza né di «posa» né di «minor pena» (v.45).
Anche nell’elenco dei peccatori Dante non fa sconti: la lasciva Semiramide, la scaltra Cleopatra sono accostate all’infelice Didone e alla famigerata Elena di Troia. Così come Paride è accostato a Tristano.
Eppure. Eppure la terzina centrale del canto fa così:
«Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito»
(Inferno, V, vv.70-72).
Eccola là. Verso 72 (7+2 = 9 che è tre per tre…), prima parola: pietà. All’inferno! Già era strano che nel verso precedente non si parlasse di “sgualdrine e adulteri”, bensì di «donne antiche» e «cavalieri», ma ora addirittura pietà! E al centro esatto del canto!
Una svista? Dante si è distratto? Difficile a credersi per un maniaco dell’ordine come lui. Segue controprova.
Dante scorge due «colombe» (v.82) due amanti «al vento leggieri» (v.75) a cui vorrebbe rivolgere la parola, e Virgilio, un altro che non fa mai sconti, che era stato brusco con guardiani infernali quali Caronte e il re Minosse, gli suggerisce: «allor li priega per quello amor che i mena» (vv.77-78).
Mi spiego? Virgilio suggerisce di “pregare” dei dannati e di farlo “in nome del loro amore”, che sarebbe però peccaminoso, nonché la causa stessa della loro dannazione!
Ecco. Abbiamo decisamente smesso di essere all’inferno. Anche la bufera che prima era stata descritta come eterna, a questo punto, si è fermata: «mentre che ‘l vento, coma fa, ci tace» (v.96, divisibile per tre). L’ha arrestata la forza dell’Amore, con la A maiuscola, che fa sì, parola di Dante, che anche l’inferno sia paradiso.
E così Paolo e Francesca – non li avevo ancora nominati, ma chi non sa che questo è il loro canto? – non sono più dannati, sono «anime affannate», «anime offense» (“offese”, non “offenditrici”, v.109). E se i lussuriosi sono rei di sottomettere «la ragione al talento» (la ragione alla passione, al desiderio, v.39), Paolo e Francesca leggono il libro di Galeotto «sanza alcun sospetto» (v.129). Per loro, Dante è «tristo e pio» (v.117, la somma delle cui cifre fa nove…), e prova pietà: «poi c’hai pietà del nostro mal perverso» (v.93: 3 al quadrato e ancora tre…).
Di contro, Paolo e Francesca, se potessero, pregherebbero Dio per «la tua pace» (v.92): dei dannati non più bestemmiatori, che anzi intendono pregare per Dante! L’ultimo del paradiso ci ha svelato che il segreto della felicità è volere la felicità altrui: qui i due adulteri più famosi della storia, famosi grazie a Dante, vorrebbero pregare per la sua pace, non per la propria. Non sono più dannati, non qui, non ora: sarebbero beati se lo fosse Dante, perché sono interessati più alla sua “pace” che alla propria.
Il resto del canto lo affido alla tua lettura. Vi troverai le famosissime tre (!) terzine dei versi 100-108, quelle che dicono che nessun Amato può fare a meno di riamare (e, dunque, non ha colpe se non è risparmiato da Amore, se risponde ad Amore con Amore…). Quelle che dicono che l’Amore è eterno: dura persino all’inferno. E sovviene il Cantico dei Cantici, quella che per Dante è Parola di Dio:
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo»
(Ct 8,6-7).
Ti lascio con gli ultimi quatto versi del canto quinto. Prova a indovinare quale sarà la parola centrale, l’ultima del secondo verso di questi quattro che ti propongo:
«Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade»
(Inferno, V, vv.139-142).