“La verità è simile a Dio: non appare immediatamente, bisogna che la intuiamo attraverso le sue manifestazioni”.

(Goethe)

“Apocalisse”: la parola indica l’atto del gettar via ciò che copre, il togliere un velo, letteralmente, scoperta o disvelamento. In una parola sola: rivelazione.

Ma di che rivelazione si parla? Di un meteorite? Di un incendio che invade e devasta il mondo? Certamente no.

Purtroppo i luoghi comuni, che non sono altro che tutto ciò che si incontra per via e si raccoglie senza pensarci, mandano in distorsione i veri significati delle parole e le parole dei significati. Il lettore perdoni i giochi di parole, ma a volte permettono di soffermarsi di più su alcuni concetti importanti che altrimenti volerebbero via con il vento dell’abitudine.

Se si andasse per strada e si chiedesse a un passante “che cos’è l’Apocalisse?”, questi risponderebbe: “È l’ultimo libro della Bibbia ed è la fine del mondo”. Ora, la prima parte della risposta è vera, la seconda è luogo comune sbagliato, perché l’Apocalisse non è il libro che racconta la fine del mondo, ma il libro che indirizza l’uomo al fine del mondo.

Il libro dell’Apocalisse appartiene a un genere letterario, quello apocalittico appunto, molto diffuso in quei tempi. Ama i simboli effervescenti, i colori forti come è tipico della cultura orientale. Ma lo scopo non è parlare della fine del mondo, si tratta di un errore di lettura, si è scambiato il modo di esprimersi con il contenuto. Lo scopo è presentarci il fine del mondo.

L’articolo “il” sottolinea ed evidenza una differenza sostanziale e portante. “La” fine vuol dire la catastrofe, la grande conflagrazione finale, immagini che vengono usate per creare tensione. “Il” fine è la meta, il destino ultimo. Cristo usa un altro linguaggio, parla del Regno dei cieli, che non significa decollare dalla realtà verso destini mistici e mitici, ma un nuovo ordine di cose nella realtà creata, un fine da raggiungere al cui conseguimento anche l’uomo deve collaborare. Per questo l’Apocalisse è anche un libro di speranza.

Per capire il linguaggio dell’Apocalisse bisogna pensare che in un periodo di crisi servono stimoli. È televisiva, l’Apocalisse, c’è un’incidenza di immagini con spezie forti, perché non si rimanga indifferenti, rassegnati.

L’immagine simbolica infatti non descrive la realtà, ma evoca quanto sta al di là, o meglio al di sotto, di quanto appare alla superficie dei fatti umani che costruiscono la storia. In più, l’autore sacro non si limita a descrivere un singolo periodo storico, ma vuol offrire ai suoi lettori delle chiavi interpretative per leggere il  passato, per interpretare il presente e sperare nel futuro.

Bisogna, inoltre, tenere conto che il libro si autodefinisce come profezia. E i profeti, come Isaia, Geremia, non sono quelli che indovinano il futuro, bensì sono uomini del presente, del loro tempo, di cui mostrano il senso. A differenza di oggi, in cui vige la dispersione dei significati, in cui  tutto è casuale e nessuno si chiede più che senso abbia vivere. La profezia dell’Apocalisse è una speranza che parla anche oggi e che permette di leggere alla luce della Parola (quella con la P maiuscola) i “segni dei tempi”, espressione molto cara a papa Giovanni XXIII, seminati nei solchi della storia.

Il libro dell’Apocalisse, quindi, non è da considerarsi un libro di minaccia o di paura, ma un libro di consolazione. L’Apocalisse vuole costringere a guardare il male, che è tanto, e ha intriso e intride la storia dell’uomo, anche se il senso più vero è contenuto nei suoi due ultimi capitoli: sono essi il vero centro.

In un certo senso è un libro sghembo, con i primi 19 capitoli dedicati all’avvento del male e solo gli ultimi a quello del bene e della luce, esattamente come squilibrata è la storia, che è contraddistinta in maniera molto più incisiva dalla presenza del male e vede la presenza del bene criticamente celata nelle pieghe, ma in realtà è lì che si annida la forza vera della storia, e l’ultima parola, il fine della storia stessa.

Allora, lasciamoci alla penna di Victor Hugo, il quale quasi commentando idealmente l’ultimo libro della Bibbia, scriveva: «Ogni uomo ha dentro di sé la sua Patmos e la sua Apocalisse. È libero di recarsi su quello spaventoso promontorio dove andò Giovanni, assediato dalle tenebre: ma là, su quel promontorio, si è in attesa della luce e dell’alba».


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Nicola Montereale è nato a Trani (BA) il 1 Febbraio 1994 ed è residente ad Andria. Nel 2013 ha conseguito la maturità classica presso Liceo Classico “Carlo Troia” di Andria e nel 2018 il Baccalaureato in Sacra Teologia presso l’Istituto Teologico “Regina Apuliae” di Molfetta. Attualmente è cultore della materia teologica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano) e docente IRC presso il Liceo Scientifico e Classico “A.F. Formiggini” di Sassuolo (Mo). Ha scritto diversi articoli e contributi, tra questi la sua pubblicazione: Divinità nella storia, Dio nella vita. Attraversiamo insieme il deserto…là dove la parola muore, Vertigo Edizioni, Roma 2014. Inoltre, è autore di un saggio di ricerca, pubblicato nel 2013 e intitolato “Divinità nella Storia, Dio nella Vita”.