Governare è un’attività umana, ma per quale scopo? Platone, che aveva già riflettuto su questo, diceva che era per la realizzazione della giustizia. Questa giustizia, sostiene Platone, richiede la serenità e l’armonia tra governanti e governati.
Una parola che vi si potrebbe aggiungere è forse il termine “prudenza”: espressione, purtroppo, divenuta quasi sinonimo di astuzia. La “prudenza”, sostiene Raimon Panikkar, non è una tecnica, un mezzo per governare o per praticare la giustizia; bensì è una condizione del governare e, nella sua essenzialità, richiama una intelligenza che non sia schizofrenica, ma sana: sarebbe la facoltà di pensare, di percepire e sentire, di vivere l’insieme, di essere nel pieno possesso delle proprie facoltà. Per realizzare questa armonia c’è bisogno di soggetti virtuosi che vivono la comunità e non una cerchia di essa.
La morale del governare, purtroppo, spesso si riduce a buone intenzioni, e i mezzi per metterla in pratica sono lasciati agli individui. In certi manuali di morale ci si preoccupa soprattutto della morale individuale: l’aborto sarebbe uno dei peccati più gravi; mentre si attribuisce un’importanza minore alla corsa agli armamenti, allo sfruttamento economico e ad altri mali distruttori della collettività contemporanea, come la guerra… In proposito esiste ancora una obbrobriosa casistica sulla guerra (guerra giusta, guerra d’aggressione ecc.), ma nulla si dice sulle qualità di chi è preposto come animatore della convivialità umana.
Di fronte a certe assenze e a certi silenzi, là dove il “ghetto” funge abusivamente da microcosmo della comunità, c’è il pericolo che l’individuo, escluso o emarginato da quell’armonia nella partecipazione puramente storica e quindi politica dell’esistenza, cada nella disperazione o evada lungo il sentiero del cinismo o della superficialità. Per sfuggire alla disperazione, dovuta al senso di impotenza nel raggiungere un mondo più giusto e sereno, si cade, in assenza di una fede profonda, nell’indifferenza o nella banalità. Ma per la maggior parte della gente, la tentazione abituale è la disperazione: la vita non ha senso o, piuttosto, è un assurdo o uno scandalo.
La persona non può vivere senza speranza; questa non è legata al futuro bensì all’invisibile e a ciò che aggredisce l’amarezza del tempo presente: è l’esperienza di un incontro, di un bambino, di un amore, di un fiore o di un bacio che valgono più del resto dell’esistenza. Si scopre nella realtà quotidiana una dimensione interna che la trasforma. È qui che sboccia un raggio di luce che fa palpitare di gioia indicibile, offrendo una libertà sovrana. La luce di quegli occhi brillanti però è invisibile e incomprensibile per coloro che attendono sempre qualche cosa di più, rispetto a ciò che già possiedono quale condivisione nel “ghetto”, perché non hanno toccato il fondo della propria vita… o se lo hanno raggiunto, questo non ha prodotto insegnamenti.
Anche se per i “non allineati” tutto crolla, perché i tempi dell’attesa sono ancora lunghi e Godot non arriverà, tuttavia, c’è ancora un sorriso, una speranza misteriosa: la gioia di aver vissuto alcuni istanti fugaci e divini che rianimano una speranza in agonia, perché la vita spinge per essere vissuta.