Questa settimana, in vista del 2 giugno, ho sentito l’inno di Mameli suonare in più di una circostanza. Mi son chiesto se le sue parole, dopo quasi 170 anni da che furono scritte, avessero ancora un senso, se fossero ancora unificatrici per la nostra società, come dovrebbero essere quelle di un inno nazionale.

Ci sarà ancora qualcosa che ci unisce tutti, mi son detto, e per scoprirlo mi sono ricordato che Benigni ne aveva fatto l’esegesi durante Sanremo 2011, così sono andato a riguardamelo integralmente.

Ero abbastanza convinto che sull’elmo di Scipio nessuno avrebbe potuto dire alcunché. Nel video invece Benigni spiega che Scipio era Scipione l’Africano, generale romano che sconfisse Annibale, cartaginese, ponendo le basi per lo sviluppo di una cultura occidentale contrapposta ad una orientale. Dunque fuori i leghisti della prima ora: figurarsi se il popolo di Pontida, nonostante le aperture di Salvini, è disposto a riconoscersi in un romano, peraltro appellato l’Africano; e fuori la sinistra radicale riluttante da sempre a riconoscersi in politiche imperialiste e guerrafondaie come quelle dell’Antica Roma, nelle cui gesta di Scipione non può che vedere un preludio ai moderni respingimenti.

Ci ho creduto quando è arrivato il momento del tricolore. “Raccolgaci un’unica bandiera […]” legge l’attore. Chi potrebbe non riconoscersi nel tricolore? Di volta in volta qualcuno, come si apprende ascoltando i Wu Ming. Negli anni `20 fu sventolato dagli Arditi del Popolo che cercarono di fermare il fascismo, subito dopo fu usato con orgoglio dai fascisti, e dopo ancora dai partigiani. Durante il conflitto in Iraq fu usato in funzione pro-guerra in polemica alle bandiere arcobaleno, oggi per richiamare la liberazione dei Marò e così via.

Poi è il momento di “l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore”, e lì ho pensato di essere arrivato al dunque. “L’unione e l’amore” possono anche andar bene, ma quando si parla di “vie del Signore” si perdono gli atei, gli agnostici, i laici, anche perché suppongo che il Signore, al momento dell’unità d’Italia, si sarebbe tranquillamente tenuto lo Stato Pontificio. Inoltre Benigni aggiunge che si tratta di un verso ispirato al cattolicesimo liberale del Gioberti, uno per cui “la Chiesa è l’asse su cui si fonda il benessere della vita umana”, e allora è meglio lasciar perdere.

Infine le rivolte contro gli stranieri: contro il nemico esterno è facilissimo sentirsi italiano. Ma da subito, udito “ovunque è Legnano”, devo confessare che io per primo mi sono risentito. Poi vien fuori che la rivolta dei Vespri siciliani a Palermo è un fatto simbolico per gli indipendentisti siculi, vien fuori che la rivolta scatenata da Balilla a Genova non fu solo contro gli Asburgo ma anche contro gli stessi Savoia, vien fuori che la figura di Balilla fu usata dal fascismo, dunque da una dittatura che adesso la Repubblica ripudia, così vien fuori che neanche questa è la parte dell’inno che unisce tutti gli italiani.

Dunque “fratelli d’Italia” no; “la vittoria” men che meno, è pieno di perdenti; “la chioma” neanche, è pieno di pelati; “siam pronti alla morte”, contaci; “l’Italia chiamò”, avevo la suoneria bassa; e noi simu li megghì, ca cà nisciuno è fesso, uè Africa! E allora gli appalti e la cassa del mezzogiorno, gli immigrati, la parmigiana, i compositori del Nord, i filosofi del Sud, la sanità…

Alla fine sono giunto a questa conclusione: ciò che dell’inno di Mameli unisce tutti gli italiani è il “poropò poropò poropò popò popò!”. Benigni a mio avviso ci va vicino senza prenderci. Il comico all’inizio del monologo si sofferma a parlare della forma ritmica della marcetta, dice che è perfetta per gli italiani perché rende il sentimento di allegria e gli italiani sono un popolo più di tutto allegro. Il “poropò popò popò” è allora, a mio avviso, l’espressione vocale dell’allegria latente in tutto l’inno, che in quel punto non può fare a meno di esplodere.

Il “poropò popò popò” è l’espressione massima dell’italianità e il fatto che Mameli non l’abbia scritto, ma sia stato il popolo stesso nel suo cantarselo lungo i decenni a farlo diventare parte imprescindibile del testo ne è la testimonianza. Il “poropò popò popò” è un’esigenza degli italiani. In mezzo a versi che parlano di morte, battaglie, guerre, rivoluzioni, eroi, gli italiani si sono ritagliati lo spazio per riderci su. Cos’è più italiano del non essere seri quando si dovrebbe esserlo invece completamente?

Ciascuno ripensi alle ultime volte in cui gli è capitato di cantare l’inno nazionale. Gli sarà successo di impettirsi un po’, assumere un’aria solenne e prendere a cantare con lo sguardo rivolto verso l’alto o dritto davanti a sé. Così per tutta la prima strofa. Al momento dello stacco musicale poi si sarà guardato attorno, avrà incrociato lo sguardo degli altri e trattenendo un sorriso avrà cantato con forza e decisione “poropò poropò poropò popò popò!”. Il sorriso è successivo ad un estraniamento, e tale estraniamento, nell’inno, è il frutto del “poropò popò popò”: è come allora se l’italiano, ogni qualvolta si trovi a dover affermare la propria identità e la propria cultura, finisca per sottrarsi ad essa facendosi il verso. L’inno di Mameli contiene al suo interno il proprio controcanto, custodisce in sé stesso la sua confutazione.

Hanno ragione i critici a dire che l’inno italiano è stato colonna sonora per liberazioni come per sopraffazioni, per cultura come per barbarie, e va dunque celebrato con dei distinguo. Ciò che questi critici non vedono però è che l’inno di Mameli stesso è conscio di ciò e lo ribadisce avendo inglobato in sé la presa in giro del “poropò popò popò”. Questo è una pernacchia a un’affermazione di principio, un segno meno davanti a un numero importante, serbatoio deontico dei modi della dialogica. Il “poropò popò popò” è la possibilità che il nostro inno nazionale dà a chi in esso non si riconosce di prenderne le distanze, in questo modo però lo accetta: con un sardonico movimento dialettico, l’inno di Mameli riesce ad essere l’inno di tutti.

Benigni chiude la sua performance cantando una versione dell’inno tormentata e intimista. Stando attenti si sente come al momento del “poropò popò popò” appena sussurrato, fra il pubblico venga accennata la volontà di accompagnare il canto con le mani. È l’allegria maledetta a cui gli italiani non sanno resistere che anche in una versione tragica dell’inno, la versione di un ventenne al fronte, ha saputo venire a galla approfittando del “poropò popò popò”.

È così che, tutto considerato, l’inno, gli italiani, le nostre gesta e la nostra storia, mi piace pensare che quegli uomini che per la nazione unita ci hanno rimesso la vita, al momento di sputare l’ultimo sangue, l’abbiano fatto con in bocca parole né di vittoria né di morte né di gloria, ma solo di un’insopprimibile e tracotante senso di allegria.