Siamo nella settimana della Memoria, delle elezioni in Grecia, nel mese del terrore a Parigi, nella stagione delle rivendicazioni sociali, delle lotte per riacquisire i diritti contro la povertà e il neofascismo, il populismo, il terrorismo, i regimi religiosi e politici. E c’è, a sorpresa, una vincitrice: l’Italia. In particolare chi per l’Italia ha scritto, diffuso e in troppi casi perso la vita per una canzone: “Bella Ciao”.

A Parigi l’emozione di Bella Ciao è la resistenza della libertà d’espressione alla barbarie dei kalashnikov, ad Atene accompagna la vittoria di Tsipras dopo la minaccia scampata di Alba Dorata e dei populismi estremi, a Hong Kong scandisce l’opposizione alla Cina comunista, a Istanbul canta la rivolta contro l’Islam autoritario di Erdogan. L’hanno cantata gli studenti in Iran contro la repressione degli Ayatollah e i palestinesi a Gaza e i manifestanti a Buenos Aires. È il mondo intero a cantare Bella Ciao. C’è davvero da riempirsi di orgoglio e commozione.

Eppure, in Italia Bella Ciao è stata mandata in esilio e mai cantata, come si dovrebbe, con l’alzabandiera del 25 aprile, ma trattata come un inno comunista, degradata da canto laico della liberazione e della concordia repubblicana a canzone di apparato italo-sovietico.

E invece, nel mondo, la canzone della nostra Resistenza ha fatto la sua resistenza, e ha vinto, anche contro se stessa. È infatti evasa dalla gabbia del braccio armato e del pugno chiuso con la forza della melodia tradizionale, con quelle due parole “ciao” e “bella” che sono le password della nostra identità, con i timbri e i toni che sono il meglio della leggerezza di Sanremo, con la dolce malinconia del bel fiore sulla tomba, e ovviamente con il partigiano morto per la libertà e non per rosse primavere di falce e martello e neppure per il sol dell’avvenire della filosofia classica tedesca.

Insomma Bella ciao ce l’ha fatta a ravvivare emozioni e intenti che la resero colonna sonora della guerra partigiana al nazifascismo, quando fu preferita a Fischia il vento perché più trasversale, ecumenica. E la sua storia e la sua memoria la rendono canzone che unifica le speranze e le attese della democrazia. Fu la canzone delle forze politiche costituenti, tutte: laburiste, antifasciste e repubblicane, anche se in modi diversi e tra loro conflittuali, ma tutte Bella ciao: un fiore di montagna come educazione civica.

E per capire che è tornata ad essere un inno internazionale di libertà basta rivedere su tutte quelle labbra che a Parigi scandiscono “Una mattina / mi son svegliato / e ho trovato l’invasor“. Nessun professore comunista li dirige, nessun libro marxista li ispira quando fondono Bella ciao e La Marsigliese dondolando e mixando “sotto l’ombra di un bel fior” con gli evviva alla memoria degli artisti di “Charlie Hebdo”, e senza mai andare né fuori tempo né fuori moda.

Ed è emozionante la compostezza del coro un po’ stonato di Istanbul con tutti quei ragazzi turchi che battono il tempo con le mani: “E se io muoio / da partigiano / tu mi devi seppellir” diventa resistenza al martirio di Kobane, agli arresti dei giornalisti, all’oscurantismo religioso.

È un contagio che arriva sino ad Atene, si diffonde senza radio e senza Ipod, ricorda l’epoca euforica degli anni Sessanta: Bella ciao come i Beatles, il vecchio canto della libertà italiana come la musica dei progetti, delle illusioni e degli azzardi, il nostro fiore di montagna contro il terrorismo in Europa, contro la mortificazione delle donne in Turchia. E sorprende e diverte a Hong Kong la voce di un italiano contro la violenza di quel terribile mondo arcaico che è la Cina.

Certo, la storia di Bella ciao era già una specie di leggenda. Agli inizi del Novecento fu il canto delle mondine nelle umide risaie attossicate: “Oh mamma che tormento/io mi sento di morir”. E ci sarebbe persino una versione Yiddish incisa a New York nel 1919. Mille ricerche sono state fatte sul giro del mondo di questa canzone che è stata folk, ebrea, swing e tradotta anche in giapponese. Ma le ricerche riportano sempre al punto di partenza: Reggio Emilia, 1940. Nella geografia della memoria Bella ciao è infatti il luogo della Resistenza condivisa, il ritmo della lotta antifascista che fu si comunista, ma anche cattolica e azionista, come la Costituzione.

Bella ciao ha sconfitto quell’altra Bella Ciao, spacciata per eversione e per rivoluzione. Insomma il fiore del partigiano fu, a torto, classificato, non come uno dei pochi canti della democrazia, ma come politica cantata, accanto agli inni del movimento operaio e all’orrendo inno che la DC fece suo: “O bianco fiore / simbolo d’amore / con te la pace / che sospira il core”. I comunisti risposero: “Il 25 aprile / è nata una puttana / e le hanno messo nome / Democrazia cristiana”.

Ecco, Bella ciao è un’altra storia, e sembrava che lo avessero capito tutti. La cantarono infatti Claudio Villa e Yves Montand, Gigliola Cinquetti, Francesco De Gregori e Giorgio Gaber, canzone impegnata e canzone scanzonata. Finché i leghisti al governo di alcune città del Nord (Treviso, Pordenone …) proibirono di suonarla il 25 aprile.

In quell’Italia pazza la solita serva Rai arrivò persino al tentativo di festeggiare i 150 anni dell’Unità suonando a Sanremo sia Bella Ciao sia Giovinezza, e di nuovo la canzone della Repubblica fu spacciata per inno comunista attraverso il gioco della somiglianza-contrapposizione con l’apologia del fascismo, suonata per par condicio…

Ebbene Bella ciao ha superato anche quell’oltraggio. E adesso che ha conquistato il mondo, forse riconquisterà anche l’Italia.