“Non c’è schiavitù migliore dell’essere prigioniero della speranza”: la nostra vita finisce il giorno che diven­tiamo silenziosi sulle cose che contano. Il coraggio per aver assaporato il gusto amaro della sconfitta, l’aver percepito mani fiacche e cuori sconsolati a causa di conflitti e rifiuti, può portare ad accogliere la sfida della speranza come un volersi veramente bene: rinunciarvi è rinunciare alla vita.

Ma … quando ci imbattiamo tra mille silenzi o tra mille assenze, quando si incontrano “spalle voltate” di chi ha liberamente accettato il ruolo istituzionale di ricuci­re legami e rapporti, chi pronuncerà l’invito del profe­ta Zaccaria (9,12): “Tornate alla fortezza, o voi prigionieri della speranza”?

Kierkegaard aveva definito la speranza “passione per ciò che è possibile”, mettendo in particolare l’accento sul “pathos” di quell’amore doloroso e gioioso che lega il cuore umano a ciò di cui ha profonda nostalgia e quindi l’attende.

Per la persona responsabile la speranza non è una scelta opzionale ma è un comando: è forza che ci man­tiene in vita e seme dirompente che ci porta alla libertà.  Sì, può sembrare strano che la speranza sia un co­mando. Certamente sembrerà strano per coloro che la considerano come un pio sentimento del cuore o una esube­ranza giovanile; come anche per quelli che l’hanno riposta nell’esperienza o nelle previsioni di una sto­ria: co­storo non sperano, ma calcolano secondo le leggi della probabilità … non sono uomini di spe­ranza, ma burocrati, esperti del conteggio.

La speranza è più di un sentimento, più di una esperien­za, più di una previsione. La speranza è un comando; seguirlo significa vivere, sopravvivere, perseverare, mantenersi in vita fino a ché la morte non sia inghiot­tita nella vittoria. Obbedire a tale comando significa non essere mai rassegnati né concedere mai rabbio­samen­te spazio al­la distruzione. Annunziare la speranza è lavorare su di sé, sulla propria immagina­zione, sulla or­ganizzazione della propria vita. Ordinariamente non ci si improvvisa testimoni della speranza.

Sperare non è confidare in un ipotetico astratto miracoli­stico intervento di Dio, ma nella forza atte­stata di persone sempre accoglienti, anche se ferite, attraverso un comunicare “amorevole” e personale. In propo­sito sono offensive certe parole consolatorie, perché non risollevano mai nessuno dallo stato di prostrazio­ne, ma colui che trasforma la rabbia in speranza, colui che lotta e alla fine spera anche per tutti coloro che non hanno più speran­za, pur non essendo più “immacolato”, diventa prezioso nel vincere la grande tenta­zione della disperazione e della frustrazione, unendo misteriosamente tra loro una moltitudine di persone: è questa una grande forza aggregante tra steppe e deserti, tra spazi pericolosi e letali prodotti dalla pazzia umana. Roger Garaudy aveva definito la speranza “l’anticipazione militante dell’avvenire” nonostante la frattura tra pro­messa e realizzazione, tra “coraggio” e “futuro”.

Si ha bisogno di poeti, nel senso etimologico del termine (poièô = fare, rendere concreto, plasmare), che sappiano esprimere la realtà a partire dai simboli. Se la speranza non anima la nostra vita, vana sarà la nostra attività, vuota la nostra compassione.