Arriva sempre il tempo in cui non troviamo più gusto in quello che stiamo vivendo, nelle relazioni, nel lavoro. L’esistenza ci sembra ridotta al ripetersi delle stesse cose che non hanno più potere di risvegliare in noi sentimenti, emozioni e vita: spunta il desiderio di cambiare, di cercare quegli stimoli che ci mancano. Ma il gusto della vita non viene dal cambiare quando si è stanchi, bensì dalla capacità di penetrare la profondità di se stessi. La conquista o riconquista dell’identità personale non è mai senza sofferenze: occorre attraversare il deserto della delusione, della solitudine e della noia, senza rifiutare, sotto l’impeto della paura, confronti e scontri dialettici; soltanto allora, lontano dagli adulatori, si arriva a percepire quella profondità che rivela quel che tu stesso sei e non sapevi di essere.
Il problema dell’identità profonda del proprio essere può essere risolto affrontando a viso aperto la lotta contro le “tentazioni”, laddove escono allo scoperto i vari totem più profondi e nascosti. A scanso di equivoci nel linguaggio corrente, “essere tentati” significa sentirsi attratti dal gusto del proibito. La Bibbia però invita a considerare la tentazione come un momento di verifica della solidità delle scelte fatte dalle persone: come un’occasione di crescita. Nella tentazione è insito anche il rischio degli errori, ma questo pericolo è inevitabile se si vuole maturare. L’essere “tentati” può essere inteso come un sottoporsi a una prova, a un esame, a una controproposta: quella del “salva te stesso”, cioè di annullare le tre relazioni fondamentali che caratterizzano la vita umana, cioè la relazione con se stessi, con l’Assoluto e con la comunità.
Il periodo quaresimale da sempre propone questo grande pellegrinaggio interiore scandito da tre tappe: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. La Pasqua, come resurrezione delle “ossa inaridite”, diventa la meta di questo percorso che recupera forze vive per la città.
L’elemosina, etimologicamente, deriva da una radice greca che vuol dire commuoversi, avere pietà, intervenire in favore di chi è nel bisogno perché ci si sente emotivamente coinvolti nel suo problema: l’altro non mi è estraneo! È un modo concreto di dialogare. Se poi ci addentriamo nel mondo ebraico rileviamo che non esiste un termine per definire l’elemosina, ma la si chiama semplicemente tzedakáh: giustizia. Quindi fare l’elemosina non è lasciar cadere dall’alto qualche spicciolo, ma ristabilire la giustizia, riconoscendo che i beni di questo mondo non appartengono al “furbo” di turno, ma sono oggetto di condivisione.
La preghiera non altera il nostro stato d’animo, non ci fa raggiungere i confini inesplorati della nostra psiche. La preghiera ci apre alla realtà, anzi ci fa cogliere l’altra faccia delle cose: quella vera che non appare subito. Nel racconto della Trasfigurazione (Lc 9,28-36), Gesù non divenne un altro, non ha perso la sua identità, ma l’ha manifestata e questa mentre i discepoli erano in preghiera. Nel Getsemani i discepoli si addormentarono, quindi il loro sguardo rimase chiuso sul mistero profondo che si stava consumando. Pertanto la presenza di Dio non si esaurisce nella sfera del culto, ma abbraccia tutta la vita diventando espressione che cambia i rapporti interpersonali: Dio non ci fa suoi “clienti” ma suoi “coniugi”… portatori dello stesso giogo.
Il digiuno è sapere controllare il nostro impeto e i nostri desideri, ma anche una finestra su un tipo di realtà alla quale siamo normalmente chiusi: i crocifissi da resuscitare; attraverso questa finestra si può guardare fuori e scoprire un altro mondo da cui ricevere luce per scrutare la propria interiorità con la stessa forza di quel Cristo che da Signore si è fatto servo … e quindi nella misura in cui ci si fa servi, si potrà diventare anche Signori.