
Il problema della sofferenza da sempre tormenta la persona di ogni tempo e di ogni cultura anche se, non di rado, egli stesso ne è l’autore responsabile. Anche la Bibbia specchio per eccellenza della condizione umana, si fa carico del grido di dolore che sale incessantemente dalla terra; basti pensare che un terzo dei salmi è collocato sotto il segno della sofferenza e della supplica che fanno innalzare a Dio l’interrogativo che sembra senza risposta: “Perché? Fino a quando?” Ma le religioni, con le loro risposte, non esauriscono il mistero.
La giornata mondiale del malato, celebrata l’11 febbraio, ha voluto mettere al centro della comunità umana il vasto mosaico delle molteplici espressioni del dolore e del dramma umano che vanno dai malati cronici e morenti, ai portatori di handicap fisici e psichici, agli anziani soli e non autosufficienti, ai malati di aids, agli emarginati e disadattati di ogni genere con le conseguenze di solitudine, rimpianto e disperazione. La malattia quindi non è solo una questione biologica: quando siamo ammalati abbiamo bisogno di essere confortati, guardiamo alla vita in modo diverso, cambiano le priorità e se la malattia si aggrava cambia anche la scala dei nostri valori.
Come la comunità cristiana ha affrontato questo problema? Il rifarsi all’esperienza evangelica di Gesù Cristo è un passo obbligato; infatti, il malato non costituisce per Gesù materia di discussione teologica sul perché della malattia e della sofferenza. Il malato è soltanto il luogo privilegiato dell’operatività, il luogo dell’appuntamento che richiede non solo un impegno urgente, ma, prima di tutto, una presenza. Parlare poi di pedagogia di Dio che fa maturare i suoi figli attraverso il dolore è “sadismo teologico”, ideato da chi non si è reso conto del male orrendo che colpisce gli innocenti. E poi, chi ha mai detto che il dolore umanizza? Il male esiste e non va spiegato, ma combattuto; inoltre di fronte al male non viene chiesta la rassegnazione, l’uomo può e deve gridare allo scandalo, ha il diritto di dire a Dio che non capisce per quale ragione l’ha creato amante della vita e della gioia e poi l’ha collocato in un mondo di dolore e di morte. Questo grido quasi ci spaventa, pare una ribellione, una bestemmia… invece è preghiera: chi piange e grida il proprio dolore, anche se non se ne rende conto, sta invocando Dio, sta chiedendogli luce e forza.
Una comunità dal volto umano che si pone accanto a chi soffre per cercare di rendere più serena l’ultima tappa del pellegrinaggio terreno, deve contribuire ad “educare i sani”, aiutandoli ad accostarsi con umiltà e rispetto al mistero del dolore. Quando le distanze umane tra di loro si accorciano, fino a stabilire relazioni profonde di solidarietà, soprattutto tra persone accomunate dalla presa di coscienza di essere deboli e vulnerabili, il malato diventa non solo un destinatario di cura e attenzione, ma anche un protagonista attivo di coesione. Mancare questo appuntamento significa fallire l’esistenza terrena; dietro questo fallimento come si può parlare di valori umani e religiosi?