Se nell’Inferno Dante deve scendere fino al centro della terra, dov’è conficcato Lucifero in seguito alla sua ribellione a Dio, nel Purgatorio si tratta di salire fino a riacquistare la perduta innocenza dell’Eden, spogliandosi, girone dopo girone, delle inclinazioni ai peccati (i sette vizi capitali) attraverso la penitenza e la preghiera. La presenza di quest’ultima è rilevante in tutto il Purgatorio, a tal punto che si è definita la poesia della seconda cantica la più “liturgica” delle tre.

Si legge nell’Enciclopedia Dantesca: “Sulla via dell’anima che si libera dal peccato e tende, attraverso la purificazione, alla visione di Dio, la preghiera è uno dei mezzi più efficaci. Mentre nel regno senza speranza la preghiera affiora appena qua e là, le due altre cantiche sono tutte pervase dallo spirito della preghiera, soprattutto il Purgatorio, dove le anime, nell’ansia di diventare più degne dell’ascesa verso Dio, pregano quasi senza tregua”. Quasi come in un contrappasso psicologico e dell’anima, parallelo a quello brutale dell’Inferno, le parole stesse delle orazioni, mentre infondono forza e vigore per continuare il viaggio di purificazione, allo stesso tempo correggono le inclinazioni legate alla vita sulla terra. Per esempio, le anime dei superbi recitano il Padre nostro:

«O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,

laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
da ogni creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore» (Purg. XI, vv. 1-6).

Se sulla terra i superbi si compiacevano solo di se stessi, ora riconoscono la grandezza di Dio a cui si indirizzano gli insistenti aggettivi possessivi di seconda persona («tuo») e il soggetto «tu» dei verbi, e già l’atto stesso del pregare rivela un esodo dal proprio io perché precarius (da cui, non a caso, deriva il termine preghiera). Ad essere lodato è il nome di Dio e non più il loro, che nella vita terrena era stato oggetto di vanità, onore e gloria destinate a svanire come l’erba che germoglia e secca:

«la vostra nominanza è color d’erba,

che viene e va, e quei la discolora

per cui ella esce de la terra acerba» (Purg. XI, 115-7).

La loro preghiera cosi continua ai vv. 7-15 del medesimo Canto:

«Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.

Come del suo voler li angeli tuoi

fan sacrificio a te, cantando osanna,

cosi facciano li uomini de’ suoi.

Dà oggi a noi la cotidiana manna,

senza la qual per questo aspro diserto

a retro va chi più di gir s’affanna».

I penitenti riconoscono che la pace può solamente discendere dall’alto ed essere accolta come dono di Dio, non potendo essere frutto dell’ingegno umano. Alla propria volontà, ritiene Dante, si deve anteporre quella divina: solo così la vita dell’uomo non rischia di indietreggiare e accartocciarsi su se stessa piuttosto che avanzare e progredire.