Non credevo che ad Andria potessero esserci delle comunità attive di buddisti, né mi ci ero mai imbattuto prima. Detto altrimenti: non pensavo che ad Andria, città di provincia del Sud Italia, potessero esserci tanti buddisti da formare una comunità autonoma rispetto a Bari o alle altre città vicine. Invece una sera, alla fine di un incontro, Rossella e Saverio mi dicono che devono andar via perché sono in ritardo per lo “zadankai”. La cosa m’incuriosisce e mi spiegano che lo zadankai non è altro che un incontro di discussione fra buddisti, che loro da qualche tempo seguono quella religione, che in città i gruppi attivi sono 5, dislocati in diverse zone, e che in tutto i buddisti andriesi sono una cinquantina.

Chiedo allora se posso andare ad un loro incontro per saperne di più e qualche giorno dopo mi avvisano che il giovedì successivo ci sarà un altro zadankai, che lì sono il benvenuto.

L’appuntamento è in un appartamento del centro. Quando arriviamo ci accoglie Massimo, uomo di mezza età, padrone di casa. Ci accomodiamo in un salotto ben arredato in attesa che arrivino gli altri. Noto in un angolo un sobrio altarino e Paola, che mi fa da cicerone per tutta la visita, mi spiega che quello è il “Gohonzon”, l’oggetto di culto che ogni buddista ha. Anzi, aggiunge, si diventa buddisti una volta che si entra in possesso proprio del Gohonzon, considerato che non esistono riti ufficiali come potrebbe essere il battesimo per i cristiani. Il Gohonzon è un oggetto molto intimo e privato, per questo non posso fotografarlo. Mi spiega anche che il buddismo in Puglia esiste dagli anni ’70, ad Andria dagli anni ’80. Loro sono seguaci della “Soga Gakkai”, buddismo giapponese, e quando lei è diventata buddista, 7 anni fa, c’era solo un gruppo in città, poi in poco tempo sono quintuplicati, mentre in tutta la regione i fedeli sono circa 2000.

Una volta arrivati gli ultimi che si aspettavano, tutti si mettono in posizione, rivolti verso il Gohonzon, alcuni tengono in mano una specie di rosario, e cominciano in coro la recitazione del mantra. Chi non è buddista direbbe cominciano a pregare. Ripetono tutti all’unisono “nam mioho renge kyo”, lo fanno centinaia di volte, solo intervallandolo di tanto in tanto da altre brevi formule e dal suono di una campana. Hanno tutti l’aria concentratissima, nessuno risparmia la propria voce e l’effetto finale è molto suggestivo. Dopo una decina di minuti tutto finisce. L’atmosfera è cordiale e informale, ci mettiamo comodi, in cerchio, e comincia la chiacchierata.

Dico che è stato molto piacevole ascoltare il mantra recitato in quel modo. «È stata una delle prima cose che mi ha affascinato del buddismo» prende la parola Paola. «Uno dei significati di “nam mioho renge kyo” è “mi dedico alla mistica legge di causa ed effetto attraverso il suono della voce” e il fatto che venga menzionata la voce non è da sottovalutare. È vero, il mantra si può recitare anche mentalmente, ma è più giusto farlo ad alta voce perché la voce produce una vibrazione e visto che tutto possiede una sua vibrazione, lo dice anche la fisica quantistica, la vibrazione vocale agisce su quella insita negli altri corpi. È importante per questo anche la postura, perché la voce vien fuori meglio e si accoglie meglio quella degli altri. Insomma tutto è collegato, e sono tutti questi elementi che alla fine ti portano in uno stato di benessere».

«Tu come hai scelto di diventare buddista?» chiedo a Paola. «Ho iniziato a praticare che avevo 48 anni, un marito, un figlio, uno status sociale invidiabile. Sono arrivata al buddismo dopo un periodo di crisi profonda in cui sono caduta dopo la morte di mia madre. Piangevo tutto il giorno e non mi riconoscevo più. A volte ero in classe a fare lezione e dovevo correre in bagno per piangere. Fino a quel momento ero sempre stata agnostica, invece in quel periodo iniziai ad avvicinarmi alla religione. Lo feci con il cattolicesimo, quella più prossima a me: parlavo costantemente con una suora, andavo in chiesa, andavo a fare le adorazioni, ma niente, continuavo a stare male. Poi una mia amica un giorno mi invitò a seguirla ad un incontro buddista, le dissi di no ma rispose “perché? Tanto più frecata di come stai non puoi stare”. Così mi convinsi. E ricordo che dalla prima volta che mi sono messa davanti a un muro e ho preso a recitare “nam mioho renge kyo…” qualcosa in me si è risvegliato. Era la mia strada, l’ho sentito subito e non ho più smesso. Non saprei dirti cosa ho trovato nel buddismo che il cattolicesimo non mi abbia dato, non posso farne un discorso razionale, anche perché la fede di razionale non ha niente. Semplicemente il buddismo mi è subito risuonato dentro, mentre il cattolicesimo no».

«Anche per me è stata fondamentale la curiosità» interviene Eufrasia, moglie di Massimo, il padrone di casa. «Avevo tutt’altri progetti: ero una catechista e avevo intenzione di partire missionaria come Madre Teresa. Poi partecipai a un incontro buddista e mi lasciò qualcosa. Allora presi a studiare, a sperimentare, ad approfondire. Solo quando mi è stato tutto chiaro sono diventata parte della comunità. Ricordo quando lo dissi a mia madre, mi rispose incredula “come? sei diventata tubista?”. La vita di un buddista ad Andria è costellata di queste battute, ma a parte queste note di colore non si hanno problemi di alcun genere. Sai cos’è?  Quando andavo in chiesa, da cattolica, mi affidavo completamente a Dio, a qualcuno all’infuori di me e di conseguenza io come persona ero limitata. Invece nel buddismo questo non succede perché si crede che tutto ciò di cui si ha bisogno è già dentro di noi. L’unica difficoltà per il buddista è quella di far scattare una scintilla che gli permetta poi di mettere se stesso in armonia con il tutto. Il buddismo mi ha dato una più piena consapevolezza di me».

«È così» replica Paola. «Ad esempio se sei cattolico e non rispetti uno dei Dieci Comandamenti vai dal prete, ti confessi, lui ti dà la punizione riparativa e la cosa è superata. Nel buddismo invece nessuno mai ti farà pesare che hai peccato, né ti darà punizioni, perché l’idea alla base è che tu stesso sei il padrone della tua vita. La tua vita è tua responsabilità e considerato che il principio base del buddismo è quello di causa-effetto, tutto ciò che di buono fai per la tua esistenza ti ritorna indietro positivamente, ciò che fai di negativo ti ritorna altrettanto. Quindi se io non recito il mantra, nessuno verrà a dirmi che ho peccato perché non ho “pregato”, semplicemente ho fatto qualcosa di negativo per la mia vita, ne pagherò le conseguenze».

La conversazione a quel punto si allarga e tocchiamo tanti altri punti. Tutti i presenti, alternandosi, mi spiegano che la loro comunità non è organizzata gerarchicamente. La Soga Gakkai ha solo un maestro – Daisaku Ikeda – e poi dei responsabili che semplicemente hanno un loro ruolo all’interno del gruppo. Il percorso di un buddista è sostenuto e guidato dunque da pari, ciascuno con la sua peculiarità. Ancora, non esistono sacramenti, ci sono degli esami, che però servono solo a migliorarsi personalmente, non a diventare delle autorità o a salire di grado. Infine le feste comandate: non esistono in senso stretto. Viene commemorata la nascita del fondatore Nichiren Daishonin, la fondazione della Soka Gakkai e poche altre cose. Non lo si fa tuttavia attraverso dei riti specifici, le ricorrenze, in questo senso, sono solo delle opportunità di riflessione.

Per me è un mondo completamente nuovo, un mondo che piano piano provo a decodificare, riuscendoci parzialmente. Parzialmente perché nonostante l’ora e passa di chiacchierata c’è una cosa che non riesco a spiegarmi. Visto e considerato l’intero impianto teorico buddista, la legge di causa-effetto su cui si fonda, il lavoro da fare sulle potenzialità che ciascuno già possiede, l’assenza di un’entità che giudica o che aiuta, mi chiedo: perché pregare? Quale senso ha la recitazione del mantra con una formula e un rituale predefiniti? Glielo domando.

Loro non fanno una piega, sorridono con il fare di chi si è posto quella domanda già altre volte. «Io utilizzo il mantra per centrare me stessa» mi spiega poi Paola. «Mi serve a mettere in direzione la mia mente con il mio io. È utile per uscire fuori dalle trappole del quotidiano, quelle che ti danno fastidio o ti fanno soffrire, e poterle guardare dall’alto, essere così consapevole che tutto ciò che ti accade non è altro che un riflesso del tuo io. Sia chiaro che il mantra è uno strumento, il buddismo non si ferma a quello. Fermarsi solo a quello non avrebbe senso».

«Recitare il mantra è una palestra che mi allena a credere in me stessa» le fa eco Rossella. «Perché “credere in sé stessi” è diventato un vuoto ritornello, ma per quanto mi riguarda ci riesco davvero solo se mi fermo a lavorarci su. Questi momenti di recitazione sono il modo per fermarsi».

A quel punto si è fatto tardi. Loro devono continuare con lo zadankai, ringrazio per la disponibilità e vado via. Scendo le scale del condominio e mi torna nelle orecchie la voce profonda di Massimo che recita “nam mioho renge kyo… nam mioho renge kyo… nam mioho renge kyo…”. Dice che non ha mai fatto nessun corso per averla così impostata, eppure qualche segreto deve averlo intuito.


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