Ci sarebbe bisogno di una “visione” che facesse leva sull’appartenenza di tutte le persone alla medesima famiglia umana

Alcuni anni fa, in un’intervista al Sunday New York Times Book Review, qualcuno ha osservato che “ci vogliono quattro generazioni per guarire un atto di violenza”. Questa affermazione porta alla brutalità che subiscono i rifugiati, alle guerre e alle carestie causata da queste. Nello stesso tempo, nel mondo attuale è difficile che accada qualcosa senza che ne siano coinvolte le grandi potenze, come se si trattasse di un perenne conflitto tra est e ovest: vedi Ucraina e Russia, come Israeliani e Palestinesi.

Igino Giordani, un anti-fascista e Padre costituente, in tempi non sospetti (1951), scriveva:Qui, si tratta che si sta montando una guerra di egemonia tra due blocchi, dalla quale noi non abbiamo nulla da sperare e con la quale non abbiamo nulla da spartire. Vinca la Russia o vinca l’America, se noi ci lasciamo coinvolgere passivamente, avremo che l’Europa diverrà il centro della carneficina e della distruzione”.

Pensate che, nel conflitto Russia-Ucraina, la prima iniziativa diplomatica, fatta dall’Europa, è stata messa in atto due mesi dopo l’inizio della guerra stessa! Forse perché speravamo, con le armi, di arrivare a vincere, o, perlomeno, a impattare e a ob­bligare la Russia a fermarsi.

I nostri capi di governo, sostiene Luigino Bruni dalle colonne di Avvenire, continuano a utilizzare la guerra come mezzo di risoluzione delle controverse internazionali, appagati, poi, da intima soddisfa­zione, di consensi elettorali acritici. Forse, dovremmo cercare qualche spiegazione diversa di questo enorme fallimento: certamente occorre ripensare a nuove classi dirigenti.

Mezzo secolo di regressione civile ed etica ha prodotto una classe internazionale di manager tutti simili: parlano tutti inglese, tutti formati alle stesse virtù performative, strategiche, muscolari e belliche.

Non deve stupirci, quindi, se, tra gli accademici più entusiasti della linea bellica della NATO, ci siano molti che, da giovani, erano stati cattolici e/o di sinistra, grazie anche al peso pseudo culturale, sviluppatosi nell’ambiente della stessa NATO, durante la guerra fredda. Ma non avevamo promesso due volte a Gorbaciov che, caduta l’alleanza bolscevica, la NATO sarebbe finita? E, invece, non solo l’abbiamo mantenuta, ma l’abbiamo anche allargata a tutti i Paesi dell’alleanza bolscevica. La NATO, per regola, ha come capo un generale americano; segue, quindi, la politica dell’America, che mira sempre a guidare il mondo, non permettendolo alla Russia o, eventualmente, alla Cina.

Nella Gaudium ed spes (1965) al n°80 si legge: “Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città e di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato”. La guerra nella situa­zione attuale, quella dell’era atomica, è “alienum a ratione”,cioè “fuori della ragione”.

Purtroppo, stiamo assistendo all’emergere dell’irrazionalità, soprattutto nei momenti critici e oscuri che siamo chiamati ad attraversare. Il Censis, spesso, nei suoi rapporti annuali, parla di “società irrazionale”: «La razionalità che, nell’ora più cupa, lascia il posto, in molti casi, a una irragionevole disponibilità a credere alle più improbabili fantasticherie, a ipotesi surreali e a teorie infondate, a cantonate e strafalcioni, a svarioni complottisti, in un’onda di irrazio­nalità che risale dal profondo della società». Piuttosto che di “ragionevole dubbio”, come accade nella migliore tradizione giuridica, stiamo facendo i conti con irragionevoli e sterili scorciatoie, che, insinuandosi nella mente delle persone semplici e in quelle, maliziosamente, dotte, remano contro i notevoli sforzi che la scienza e la politica delle persone avvedute stanno conducendo con sacrificio.

È inutile raccontarsi che lo Stato deve limitare il ricorso alla guerra ai casi di legittima difesa dei suoi diritti! Per sua natura, la guerra persegue sempre la difesa dei diritti della Nazione.

Ma “quali diritti lo Stato ha il diritto di difendere con la guerra”? Qui subentrano gli interessi dei costruttori di armi, che favoriscono le guerre, pur tenendole lontane. Purtroppo, quella tra Russia e Ucraina è estremamente vicina a noi Europei, mentre per l’America è una guerra lontana, quindi da alimentare.

Per gli stessi Stati ex comunisti, ad esempio, il pericolo di un regime capitalista è un casus belli. Ve ne sono alcuni, anche, che invocano il diritto di ricorrere alle armi per difendere l’integrità del territorio nazionale. Questo concetto di territorio nazionale è assai vago, perché sono il risultato di “accidenti storici”. Ma, spesso, arrivano ad essere sacralizzati, in modo tale che la perdita di una piccola parte di territorio equivale, moralmente, alla rovina della nazione e costituisce un caso di guerra.

La questione si pone per l’Europa: la difesa del sistema democratico vale una guerra? La prosperità economica dell’Occidente è un bene che vale la pena difendere con una guerra?

A confronto con i crimini dell’oppressione e con l’immensa sofferenza umana, si nota come la cre­scita della civiltà sia andata di pari passo con un’esplosione di violenza, a tutti i livelli della società umana: a livello personale, strutturale e tecnologico. E così, nel mondo di oggi, essere civili equivale a essere violenti!

Dove trovare i profeti? Che fare della loro profezia? È evidente l’incapacità dei sistemi capitalistici (fondati sull’individualismo) e internazionali (fondati sull’interesse nazionale e la ragion di stato) di affrontare le gravi questioni, da cui dipende il futuro dell’umanità. Ci sarebbe bisogno di una “visione” che facesse leva sull’appartenenza di tutte le persone alla medesima famiglia umana, per costruire insieme relazioni sociali e internazionali!

Giorgio La Pira (1904-1977) parlava di urgenza della misericordia come dinamica politica, in grado di aprire al futuro un mondo sotto minaccia nucleare, ecologica e demografica. A questa priorità, fanno seguito le attese della povera gente, che demistificano l’ideologia razzista, sottesa agli inte­ressi nazionali e alle varie ragion di Stato, e impongono di ripensare il sistema economico mondiale alla luce del diritto alla vita di ciascun essere umano, in cui emerge lapriorità al valore della condi­visione rispetto a quella del possesso.

Religione e politica, in questo contesto, non potranno mai essere separate, perché la religione ha, da sempre, svolto anche la funzione sociale di tenere insieme una comunità umana: religione viene dal latino “res ligare”, cioè legare insieme le cose, e la cosa pubblica, la repubblica, è la prima delle cose che ha bisogno di coesione.

Ci volevano tremila anni di Bibbia e duemila anni di Cristianesimo, conclude Luigino Bruni, per ri­spondere ad una invasione militare con il mestiere delle armi?! Quale creatività politica ci hanno insegnato Abele (il primo assassinato), Cristo, Francesco d’Assisi, i martiri, le madri, le mogli e i figli dei caduti in tutte le guerre?