I fratelli Montesano mi ricordano Vladimiro ed Estragone

“Sul Divano”, scritto, prodotto e interpretato da Marco Valerio Montesano (classe 1997), Michele Enrico Montesano (classe 1996) e Francesco Pietrella (classe 1996). Tutti diplomati all’Accademia Nazionale d’arte Drammatica “Silvio D’Amico”, una delle più prestigiose in Italia. Tutti assieme costituiscono nel 2018 alla Compagnia teatrale che prenderà il nome di “Hosteria Fermento”. “Sul Divano” è la loro prima creazione e nel 2019 ha vinto la VI Edizione del Festival “Dominio Pubblico – la città agli under 25”.

Un divano al centro del teatro e bottiglie di birre aperte ovunque. Una dipendenza. Due fratelli scenici interpretati da due veri fratelli e figli d’arte, il papà è Enrico Montesano: Marco Valerio Montesano e Michele Enrico Montesano. Vivono in una comoda realtà parallela (ma sempre più vera della virtuale), in un mondo tutto loro, nella Repubblica Democratica di cui sono unici cittadini e Ministri, fondata sulla sacralità della birra e per l’appunto sull’altra sacralità di un divano da cui non ci si deve muovere se non per aprire altre bottiglie.

La birra è ciò che gli permette di vivere evitando le preoccupazioni della vita reale e purtroppo di scordare i bei ricordi familiari. Ma un bel giorno ne termina la scorta, i due fratelli si ritrovano con le mani vuote e la testa vuota e pesante di nuovo nel mondo che rifuggono da tempo. E pensano, pensano, si torturano come ogni buon essere umano senza un osso da rosicchiare. Cosa facciamo? Dove andiamo? Uscire ci fa un po’ paura perché è tempo che non lo facciamo.

Nel bel mezzo delle loro vite apparentemente inutili e improvvisamente in astinenza, capita il vicino di casa interpretato da  Giuseppe Amelio (sostituisce Francesco Pietrella) con in mano, guarda caso, una birra intonsa e fresca che aspetta solo un cavatappi: il cavatappi che il suo possessore, non avendolo in casa, cerca per concludere una serata con la sua ragazza. Apriti cielo dei santi bevitori, i fratelli gliela tolgono di mano con la forza. In un angolo della stanza però un piccolo succo di frutta in bottiglia se ne sta buono ed è proprio buono il sapore, sa di infanzia. Un ricordo affiora e fa male. Che stiamo facendo? Dove stiamo andando? Non vi ricorda “Aspettando Godot? Certo il paragone è un tantino forte ma ci sta: i precursori drammaturgici del tempo governato dal caos e dalla necessità sono Vladimiro ed Estragone.

E mentre mi godo la comicità stile Animal House di John Landis (vi era il compianto John Belushi) e ogni parola seria (ce ne sono tante e si deve avere la pazienza di ascoltarle bene), tra le risa forzate di un pubblico che probabilmente pensa di assistere a un cine-panettone natalizio, il mio cuore incrostato dal tanto propinato teatro senza “pneuma” (soffio vitale) ha sobbalzato. E mi sono ricordato di avere un’anima che oramai galleggiava nella salamoia dei soliti spettacoli tritapalle e l’ho tirata fuori. Posso dirlo, Grande teatro fatto da attori giovani, finalmente. I fratelli Montesano gareggiano in bravura, recitano con escursioni nella società come nella politica attuale: la loro Repubblica del Divano in fondo è una allegoria della nostra Democrazia/Democratura. Michele Enrico è il più bravo e ricorda tanto suo padre in “Febbre da Cavallo”, si sbilancia, va oltre misura con capacità e una naturalezza da plauso.

 

A un certo punto ho avuto un’illuminazione, una folgore nel buio del tormento del “teatro dell’assurdo”: i fratelli Montesano mi ricordano Vladimiro ed Estragone, sì proprio loro. Godot finalmente si è manifestato. I burattini senz’anima e coscienza, uomini arresi al tempo scenico indefinito, figli dell’incomprensibile, spocchioso Samuel Beckett: un drammaturgo tanto ombroso quanto luminoso; il ciecamente idolatrato, dai naif della cultura sinistroide, premio Nobel che con cultura e intelligenza si prendeva gioco del mondo dominato dal caos e dalla necessità. Aveva intuito la verità, la violenza della storia urlava e la pace soffocava nell’impotenza. Due soli uomini, aspettando Godot, hanno portato sulle proprie spalle per decenni il fardello di tutte le minchiate che gli esseri umani hanno combinato. Quella parola ripetuta “Andiamo?”, senza che vi segua una qualche azione, è il tormento di ogni uomo, è la testimonianza di un vuoto che non si può riempire. Due “ignoti” affidano le loro sciatte vite all’estraneo Godot. E l’estraneo Godot altri non era che l’estraneo che abitava in loro e poi una metafora, ovvero: l’incapacità manifesta di fermare sul nascere l’odio, la tirannia, la guerra e non le armi finali per contrastarla. Il coraggio di scovare una strada con le forze rimaste non è da tutti.

Godot siamo noi che ci siamo smarriti e forse mai trovati, che arranchiamo nel fango della mancanza del senso della vita, ci sporchiamo e poi ci laviamo illudendoci di essere tornati “nuovi” e finalmente “salvi”. Ecco i due vagabondi Vladimiro ed Estragone che hanno trovato il coraggio di essere, di innalzare al grido la loro patetica esistenza fatta di poche parole e poche movenze (metafora della paura che paralizza). Il teatro con i fratelli Montesano restituisce ciò che un disilluso drammaturgo come Beckett ha sottratto con l’assurdo alla vita quotidiana, per necessità in tempi passati. Chi ha condannato a morte Socrate è ancora tra noi. L’assassino dell’umano nell’essere umano è in agguato nascosto magari dietro l’unico albero sul palco.


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