In occasione della terza edizione del “Festival della legalità”, organizzato dal Comune di Andria, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare la testimonianza di Marco Pappalardo, autore del libro illustrato “Non chiamatelo ragazzino” (Paoline 2021). Ci ha gentilmente concesso un’intervista.

“Non chiamatelo ragazzino”: perché? E chi era Rosario Livatino?

Rosario Livatino, il giudice ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990, è modello, oggi, di una vita semplice ma intensa, di una dedizione al lavoro vissuto in modo coerente, di una fede profonda e concreta e di un saldo senso civico e del dovere, anche nella lotta quotidiana contro i poteri forti come la mafia. Il 21 dicembre 2020, papa Francesco ne ha riconosciuto il martirio, aprendo la strada della sua beatificazione, la cui cerimonia si è svolta ad Agrigento proprio il 9 maggio 2021, nello stesso giorno del 1993, quando, nella Valle dei Templi, San Giovanni Paolo II pronunciò il suo forte monito contro gli uomini di mafia. Lo hanno chiamato “giudice ragazzino” quasi per dire che non fosse all’altezza della lotta alla criminalità organizzata, ma a quasi 38 anni – altro che “ragazzino” – ha dimostrato con la sua esistenza e con la tragica morte che la mafia lo temeva molto. Una professione vissuta in modo coerente, un uomo dalla profondissima fede e dall’altissimo senso del dovere. Un figlio, un compagno di scuola, un amico, un innamorato, uno studente impegnato, un “credente credibile”, un uomo di giustizia, una persona attenta ai bisogni di chi soffre.

Il primo giudice vittima di mafia elevato all’onore degli altari: colpisce al cuore vedere la sua camicia insanguinata recante ancora i fori procurati dalle pallottole, che significato ha la peregrinatio delle sue reliquie per le varie città d’Italia?

Mi pare che la nostra società e questo tempo abbiano bisogno di “credenti credibili” capaci di un tale modo di essere, operare e servire, ciascuno per il ruolo e per le responsabilità ricoperti, poiché scegliere e giudicare riguardano tanti aspetti della vita, così come la giustizia non è solo chiusa nelle aule dei tribunali, bensì dovrebbe fiorire in ogni relazione e contesto umano. La mafia, uccidendo Livatino, per un attimo è apparsa vincente, eppure dopo più di trent’anni “il seme che muore porta frutto”, dunque non lasciamolo marcire, non chiudiamolo nelle sacrestie, invece offriamolo come cibo spirituale e formativo in ogni comunità, ai piccoli e ai grandi. In ogni giovane di oggi ci può essere il “giudice Livatino” di domani e questa peregrinatio può essere una goccia d’acqua per farlo germogliare!

Falcone diceva che la mafia, come tutte le realtà umane, prima o poi avrà una fine: ma basta parlare di mafia per sconfiggerla?

Sicuramente sono stati fatti tanti passi avanti nella lotta contro la mafia e c’è una maggiore consapevolezza della necessità di operare a salvaguardia della giustizia. Gli strumenti, però, sono ancora pochi, poiché il numero di magistrati e forze dell’ordine non basta soprattutto nei territori più difficili, ma anche le leggi devono perseguire la certezza della pena e senza che passi troppo tempo. Inoltre, uno Stato che non investe sulla scuola sembra non crederci fino in fondo, salvo poi presenziare alle celebrazioni in ricordo delle vittime e rilasciare interviste piene di buone intenzioni. Una tutela importante viene dalla consapevolezza di tutti i cittadini, perché siamo la prima difesa di chi opera per la giustizia; consapevolezza che nasce tra i banchi di scuola, ogni giorno per duecento giorni e per molti anni, e ha la forza dell’educazione preventiva. In Africa si dice che è “il villaggio a crescere un bambino”, dunque lo stesso vale per noi svolgendo ciascuno la propria parte non per un tornaconto personale, bensì per un bene più grande. Ha sempre senso parlare ai bambini, ai ragazzi, ai giovani, ma ancora più senso ascoltarli veramente, dedicare loro del tempo, costruire insieme qualcosa.

Lei ha dichiarato che la mafia ha più paura di un evento come il festival della legalità che di un’operazione di polizia: ne è proprio sicuro?

Innanzitutto, è importante in relazione alla lotta contro gli atteggiamenti mafiosi che permeano la società, che spesso ci lasciano indifferenti, quando invece dovrebbero destare una sana indignazione e la voglia di cambiare; se per gli adulti a volte c’è poco da fare, per i ragazzi ed i giovani è possibile se gli mettiamo accanto testimoni come Livatino e li coinvolgiamo attivamente nel cambiamento, pure a partire dalla lettura di un libro o di un articolo. Da adulti ed educatori abbiamo la missione preventiva di porre dei semi nei diversi ambienti educativi, anche quando i frutti saranno raccolti da altri, per evitare che quegli atteggiamenti mafiosi diventino col tempo terreno fertile per la criminalità organizzata. Il Festival della Legalità, così come è stato ben organizzato, non è stato una passerella, bensì un incontro con un testimone credibile e con altri che, colpiti da questa testimonianza, ci scommettiamo la vita per la giustizia e contro ogni mafia nella quotidianità. Ognuno è chiamato a fare la propria parte e, se fatta bene, è un piccolo grande colpo dato alla mafia che sopravvive spesso grazie all’ignoranza, all’indifferenza, all’omertà, che a loro volta pongono ostacoli al lavoro già difficile della magistratura e delle forze dell’ordine.

Che idea si è fatto della realtà andriese partecipando alla terza edizione del festival della legalità?

Ho passato davvero poco tempo ad Andria per avere una visione completa, ma mi è bastato per capire che le Istituzioni credono nel cambiamento, investono energie per creare percorsi virtuosi di legalità, non trascurando le necessità ordinarie, mettendo al centro la persona. Io, a partire dal mio libro “Non chiamatelo ragazzino”, ho avuto il dono di poter parlare agli studenti, porzione più delicata e preziosa della realtà andriese; li ho visti interessati e curiosi, accompagnati da docenti appassionati che certamente, finito il Festival, continueranno a stimolarli. Inoltre, ho sentito con piacere che già ci sono idee e proposte per la prossima edizione, segno di una vitalità necessaria e di un desiderio di costruire una società più giusta.


FontePhotocredits: Paolo Farina
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...