In una Bari rinata dopo la Seconda Guerra Mondiale, a seminare terrore è Franco Percoco, reo di aver sterminato la propria famiglia. Il romanzo di Marcello Introna, “Percoco”, appunto, traccia la linea sottile fra normalità e pazzia, aprendo la strada al film “𝗣𝗲𝗿𝗰𝗼𝗰𝗼 – 𝗶𝗹 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗼 𝗠𝗼𝘀𝘁𝗿𝗼 𝗱’𝗜𝘁𝗮𝗹𝗶𝗮” di Pierluigi Ferrandini, con Gianluca Vicari, presentato in anteprima al Bif&st Bari International Film&TV. Proprio a Marcello abbiamo chiesto di parlarcene.

Ciao, Marcello. Perché hai scelto di raccontare la storia di Franco Percoco, primo stragista italiano?

In origine volevo scrivere il soggetto per un cortometraggio, ma addentrandomi nella vita di Franco Percoco mi sono accorto che c’era una quantità di materiale umano così immenso, denso, significativo che un corto sarebbe stato riduttivo. Quasi squalificante. Ho un rapporto simbiotico con la mia città, intesa come luogo più che come ambiente sociale, e raccontare una parte della sua storia è una maniera per sentirla appiccicata addosso. Una sensazione che mi piace molto.

Circondato da una famiglia problematica, nella quale, ad esempio, Vittorio, il fratello maggiore, è un avanzo di galera, mentre Giulio, il più piccolo, è affetto dalla Sindrome di Down, Franco viene, inconsciamente, “giustificato” dal lettore per la mala gestio delle pressioni a cui è sottoposto?

Personalmente, dopo più di un anno di ricerche e studio del faldone processuale, ho finito per empatizzare con lui. Non si può certo perdonare un gesto come il suo, ma si può capire. Almeno entro certi limiti. Mi permetto di precisare che Vittorio non era propriamente un avanzo di galera, ma una persona malata di cleptomania che non smise nemmeno in carcere. Rubava vestiti di altri detenuti dalla lavanderia del carcere stesso. La patologia di Franco era solo meno evidente, ma anche lui avrebbe avuto bisogno di aiuto.  A volte si aiuta qualcuno semplicemente lasciandolo in pace.

“Bari è una grande città, il mare le sfiora i fianchi e le sala la pelle, stringendone i pori…”. La descrizione che Franco fa del capoluogo pugliese a Maria (personaggio ispirato ad una donna

andriese) segna quella lucida follia di mescolare sentimenti antitetici, l’ossessivo binomio eros/thanatos che conduce all’autodistruzione?

“Maria” è un personaggio che coniuga in sé le molte donne che Percoco ha sedotto in senso mentale, più che erotico. Io credo che finisse per convincersi delle bugie che raccontava, provando un senso di repulsione via via crescente, ma diretto verso se stesso. Non credo pensasse realmente alla morte. Non era una delle sue prerogative. Era una persona fondamentalmente triste e sofferente. Almeno questa è l’idea che mi sono fatto di lui e che ho riportato nei tratti del personaggio letterario.

Cosa differenzia, nel modus operandi di narrazione degli eventi, il tuo romanzo dal film “𝗣𝗲𝗿𝗰𝗼𝗰𝗼𝗶𝗹𝗽𝗿𝗶𝗺𝗼 𝗠𝗼𝘀𝘁𝗿𝗼 𝗱𝗜𝘁𝗮𝗹𝗶𝗮” di Pierluigi Ferrandini, con Gianluca Vicari, presentato in anteprima al Bif&st Bari International Film&TV?

Sono linguaggi molto differenti. Il regista ha scelto di rappresentare una parte della vita di Percoco, io ho percorso una parabola più ampia; chi scrive un romanzo può concedersi il lusso di raccontare tutto ciò che vuole; chi gira un film ha molti più paletti tra cui doversi barcamenare. Al di là dell’aspetto meramente tecnico, ci sono poi le scelte personali.

Che si tratti di un essere umano, di animali (“Il cacciatore cacciato”), o di edifici fatiscenti (la Socia di “Castigo di Dio”) quanto incide l’inclusività sociale nella prevenzione di atti delinquenziali?

Incide. Ma è solo una delle componenti. Franco Percoco era circondato da amici, eppure era irrimediabilmente solo.


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Iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Puglia, ho iniziato a raccontare avventure che abbattono le barriere della disabilità, muri che ci allontanano gli uni dagli altri, impedendoci di migrare verso un sogno profumato di accoglienza e umanità. Da Occidente ad Oriente, da Orban a Trump, prosa e poesia si uniscono in un messaggio di pace e, soprattutto, d'amore, quello che mi lega ai miei "25 lettori", alla mia famiglia, alla voglia di sentirmi libero pensatore in un mondo che non abbiamo scelto ma che tutti abbiamo il dovere di migliorare.