«La vita può essere capita solo all’indietro ma va vissuta in avanti»

(Soren Kierkegaard)

Mentre è ancora vivida la mappa dell’itinerario trascorso, resta molto offuscato il tracciato da percorrere per raggiungere la meta del 2030. L’immagine degli anni passati è rimasta indelebile negli aspetti, tragici o gioiosi, attaccati come molluschi alla roccia della memoria. Spesso si tenta di prelevarne qualcuno per assaporarne il gusto, se pur amaro, di “salsedine” (esperienze), giacché l’uomo, anche nelle “abitudini” rimane un po’ marinaio masochista, senza meta.

Oh! aprirsi un varco verso un punto desiderato si è condizionati dall’ipotetica riuscita e la condizione ne produce altre in una sequenza di matrioska fattura. Se lo scopo da raggiungere sottende al tempo-spazio-definito appunto, dovrà l’etica stare alla giustizia-libertà e non al surrogato di esse. Un torrente di parole ha invaso le aride lande abitate da derelitti, insieme a qualche sacco di granaglie, passato tra colonne di barbari in conflitto. L’uomo, come tutti gli altri esseri viventi, ha bisogno di nutrirsi, oltre che di cibo, anche di certezze: il cibo non arriva per tutti mentre le certezze le hanno solo alcuni. La certezza è l’immaginario punto di partenza, assai più alieno di un punto di arrivo.

Non  è la stessa premessa per tutti se per alcuni si pone il tracciato spazio-tempo nell’ottica e nella condizione di digiuno. Possiamo camminare, mano nella mano ma con lo stomaco taciuto poiché i rimbrotti che provengono dall’organo vuoto, non sono altro che gli inascoltati segni d’aiuto. Certamente si potrebbe soddisfare il bisogno universale di fame mantenendo la produzione di derrate alimentari attuali: basta però che la distribuzione avvenga in modo equo o quasi, usando accortezze, dove non concorrano sprechi a creare squilibri. Molto cibo risulta venir sprecato, sia durante la mal gestione di conservazione, sia per l’inaccessibilità, da parte dei meno abbienti a causa del costo, sia per l’avidità delle multinazionali del settore le quali, per mantenere i prezzi ad esse soddisfacenti, sono più propense a far marcire o distruggere le derrate, piuttosto che calmarne il prezzo e immetterle sul mercato.

Altro sistema di riuscita, e che tutti conosciamo, per liberare dalla stretta della fame chi non ha possibilità economiche: è quello di sospendere ogni tipo di ostilità, di farsi guerra. Non sempre le guerre nascono per dissidi personali ma bensì si accendono volutamente per disimpegnare, svuotare arsenali zeppi di mostruose macchine di morte. I signori della guerra sono sempre attenti che non manchi l’arma piuttosto che il pane: han ben capito che con lo stomaco pieno si è meno propensi a scendere in campo mentre lo si fa per conseguenza quando la fame incalza la vita, l’esistenza stessa dell’uomo. Con la guerra sono i “Papaveri” che detengono il monopolio del cibo: sono essi a decidere la sorte di chi non ne possiede.

Papa Francesco lo sta ripetendo in ogni sua omelia: sono troppi gli interessi che muovono le case che producono armi, molto spesso imparentati con chi manipola il cibo e la produzione di beni. Se a volte serve l’uva per fare il vino, sempre serve la guerra per fabbricare l’arma ed ecco appunto che la guerra la si inventa, la si crea poiché sono le lobby delle armi a volerlo. Sono molteplici i motivi che spinge la gente a litigare. Ma con la ragione, la saggezza, si riesce comunque a riappacificare gli animi. Non è così per i grandi conflitti, dove sono in gioco le ragioni dell’arricchimento facendoli apparire come lotta per motivi di difesa, di libertà o di quant’altre scuse, coglionate uno possa inventarsi. Lo si nota non appena i contendenti smettono di litigare e si siedono allo stesso tavolo per congratularsi del loro successo ottenuto a scapito di un nugolo di poveracci morti ammazzati. La guerra crea ulteriori povertà e quindi fame e ingiustizie. Basti pensare che ogni proiettile che una parte contendente lancia verso l’altra potrebbe sfamare intere famiglie per un giorno: con il costo di un intero conflitto si potrebbe nutrire l’intero pianeta e per lungo tempo. Ma la guerra è necessaria (predica Trilussa in una sua satira “Un Re umanitario”. Io affermo che è necessaria per chi produce mezzi di morte.

Sembra il gesto del cane che si morde la coda: guerra=morte e i morti non han bisogno di mangiare: è il termine cinico con cui si pensa di risolvere il problema? Io non credo a tutto ciò. Sono credente a che l’uomo s’avveda delle sue bruttezze e che, strada facendo, le corregga, dissociandosi dall’esser tale: inhumanum hominem.

“Non è certa la parte che a noi tutti compete”, direbbe qualcuno, dissociandosi per non restare coinvolto. Discernere la verità tra le annebbiate ipocrisie e doppiezze d’animi, disposte in modo da sembrar pilastri di scorta al tempio della ragion propria, porta a una sana riflessione: che mentre il tutto cambia, sembra che l’uomo non accenni ancora a farlo. È di questi giorni l’incalzante diaspora, in cerca di sostentamento, che spinge alle porte dell’Europa di centinaia di migliaia di profughi: possiamo dargliene fino a che ci compete e la situazione ce lo consenta. Ma perché questo stato di cose si perpetra senza che nessuno ci metta la testa per fermare l’ascesa del conflitto? Forse non c’è alcuna volontà di farlo…

Michael Burleigh nel suo lavoro “Il Terzo Reich” fa libero accenno agli “squali”, così definisce quelle persone che hanno voluto la Seconda Guerra Mondiale. Tali diventiamo, squali, predatori, nei momenti in cui la nostra famelica brama di possesso supera ogni limite. Tutto ciò ci libera, forse, dalla “costrizione?” No, solo del raziocinio. È così che, con la coscienza lassa, si può avere le mani libere e operare secondo i propri interessi.

La mal distribuzione del cibo è un fattore primario: è questa che genera malcontenti e dissidi. Siamo in “Alto mare” direbbe Slawomir Mrocek. In alto mare, sopra una zattera alla deriva e con poche derrate che nulla di buono e di rasserenante pregiudica per l’incolumità degli occupanti a rischio di cannibalismo.

Nessuno, oltre la Chiesa, pretende o consiglia d’impoverirsi per aiutare gli altri. La povertà è posta molti gradini più in basso della media condizione e qualche gradino più in alto dell’indigenza. Dare una mano a chi ne fa di bisogno non altererebbe più di tanto lo stato in cui il caritatevole si trova.

Guardiamoci indietro, dove ci siamo già stati …potremmo far uso della nostra esperienza.


FonteFoto di David Clode su Unsplash
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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.