L’alfabeto di Dante

Nel primo Alfabeto dedicato alla felicità, abbia letto della storia di Francesca, l’amante lussuriosa di Inf. V, e quella di Matelda, la donna simbolo dell’innocenza edenica, che aveva accolto e guidato il pellegrino nel Paradiso terrestre. Oggi, solcando la luce senza confini del Paradiso, gustiamo di quella piena felicità che è il fondamento del regno celeste.

Siamo nel secondo cielo, dedicato a Mercurio. Prima che Beatrice spieghi al pellegrino perché fu giusto che Cristo patisse la passione e morisse per risanare la ferita del peccato originale, ella è descritta in riferimento al suo sorriso:

Ma quella reverenza che s’indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l’uom ch’assonna.
Poco sofferse me cotal Beatrice 
e cominciò, raggiandomi d’un riso
tal, che nel foco faria l’uom felice (Par. VII, 13-18)

Ritornano qui i rimanti in ice già incontrati nell’Inferno e nel Purgatorio. Il poeta vuole che quando parliamo di felicità, ne vediamo sempre insieme la negazione (Francesca), lo stato in potenza (Matelda) e la sua massima realizzazione (Beatrice). La donna amata da Dante appare come l’opposto di Francesca. Beatrice è colei che si è presa cura del suo amato per pura misericordia, fino a lasciare il suo scanno celeste e scendere nel Limbo a muovere Virgilio in soccorso dell’uomo amato smarrito nella selva:

«Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,

l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata». (Inf. II, vv. 67-69)

Come può Beatrice, lei che è in paradiso, il luogo per definizione senza tristezza, essere afflitta tanto da aver bisogno di consolazione? Qualche critico ha parlato di un sentimento «troppo umano per una beata» (Chimenz). Ma non è questo il senso più profondo e vero della carità? Come «Dio piange per l’uomo che si allontana da Lui» (Papa Francesco), così Beatrice è afflitta nel constatare che Dante si è allontanato dalla retta via fino a smarrirsi nella selva del peccato. Commenta il Pietrobono: «Sembra pensare a sé – Beatrice-, e invece dimostra quanto grande amore nutra per Dante. Se questi non è salvo, lei non avrà pace, sebbene nel paradiso. Sono espressioni che prese alla lettera sarebbero eresie; e sono invece poesia». Beatrice non può essere felice fino a quando non lo divenga anche il suo amato.

Nell’officina della terza cantica il poeta si industria di rendere visibile questa felicità con i mezzi propri del linguaggio poetico. A partire dai versi di Par. VII sopra citati, sempre la parola «felice» apparirà in rima col nome della sua donna, manifestando nell’intreccio delle rime la comunione che intreccia i due cuori. In Par. XXV, la vista del pellegrino è tanto abbagliata dalla luce dell’apostolo Giovanni, da non riuscire a scorgere quella della sua guida:

Ahi quanto ne la mente mi commossi

quando mi volsi per veder Beatrice,

per non poter veder, benché io fossi

presso di lei, e nel mondo felice! (Par. XXV, vv. 136-139)

Pur essendo in Paradiso – «mondo felice» -, non riuscendo a vedere anche solo per un momento la sua donna, Dante ne rimane turbato – «commosso».  Si ribadisce così l’idea dell’ascesi mistica che regge tutta la poetica della luce della terza cantica e che consiste nel graduale potenziamento della vista del pellegrino. E’ solo volgendo il suo sguardo in quello di Beatrice che Dante può vincere «la battaglia de’ debili cigli» (Par. XXIII, 78). Ancora una volta il ritorno delle parole in rima suggerisce il ricordo di tutta la storia del pellegrino; un itinerario che va dalla felicità perduta di Francesca a quella eterna del cielo. Passando per Beatrice.

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Mi chiamo Michele Carretta, sono nato il dieci Aprile del 1986 e vivo ad Andria. Figlio unico, credo nei valori alti della famiglia, dell’amicizia, l’amore e in tutto ciò che umanizza la vita e la rende più bella. Mi piace leggere, andare al cinema, suonare e ascoltare musica. Attualmente sono laureando in Letterature comparate, con una tesi sulla Divina Commedia e il Canzoniere di Petrarca, e direttore dell’ufficio Musica Sacra della Diocesi di Andria.