L’alfabeto di Dante

Non dispiacerà al lettore se si ritorna ancora sulla figura di Ulisse, la cui ombra si allunga su tutto il viaggio di Dante e il cui valore di exemplum negativo è spesso ribadito dal poeta della Commedia che, al contrario, ne sostanzia il modello positivo. Giunto dunque al traguardo del suo viaggio, alla tanto sospirata visione di Dio, capiamo che leggiamo la preghiera permetterà al pellegrino di inabissarsi nel mistero di luce che è Dio e di poterlo finalmente vedere facie ad faciem:

Veramente, ne forse tu t’arretri
movendo l’ali tue, credendo oltrarti,
orando grazia conven che s’impetri
grazia da quella che puote aiutarti;
e tu mi seguirai con l’affezione,
sì che dal dicer mio lo cor non parti. (Par. XXXII, vv. 145-150)

Questa parole di Bernardo costituiscono un forte «monito contro la superbia» e pongono in primo piano il valore della preghiera quale «migliore mezzo per rivolgersi a Dio»[1]. Dante aveva già riflettuto sull’importanza della preghiera nel girone dei superbi, quando aveva invocato l’aiuto di Dio per portare a termine l’iter salvifico del Purgatorio:

Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno. (Purg. XI, vv. 7-9)

Ulisse nella sua superbia vuole fare del dono di Dio una conquista del suo ingegno; quell’ingegno che non ha caso Dante richiama in apertura di Inf. XXVI:

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. (Inf. XXVI, vv. 19-24)

In questi versi, che contengono la morale del canto, il poeta «rivolge a se stesso un invito alla cautela»[2]: lo spettacolo dell’ottava bolgia provoca nel pellegrino un dolore tale da spingerlo a riflettere sulla necessità di porre un freno al proprio ingegno. Se, infatti, le stelle o la grazia di Dio («miglior cosa») hanno elargito su Dante così tante facoltà intellettuali, tocca al beneficiario vigilare sul corretto uso di tale «ben». Egli non deve, come Ulisse, usare il proprio ingegno per competere con Dio. Fin troppo chiaro a riguardo il monito di Bernardo:

«Rifletti anche sulla meditazione della legge divina, perché chi sale finisce col cadere, chi s’innalza con l’essere abbassato. Chi sale confidando solo in se stesso (per proprii ingenii praesumptionem), cade perché commette qualche errore; chi invece ascende per mezzo della grazia, sa poi anche discendere per mezzo dell’umiltà»[3].

Alla luce di quanto scrive Bernardo, è più facile comprendere la sostanziale differenza tra il viaggio di Ulisse e «l’altro viaggio» di Dante. Innanzitutto il concetto di praesumptio accomunato all’uso dell’ingegno. Il testo del Cistercense sembra richiamare da vicino il peccato di Ulisse, colui che credendo unicamente nelle forze del suo ingegno si erge a navigatore solitario non curante del divieto di oltrepassare le colonne d’Ercole. Il suo è un grave atto di superbia simile a quello di Adamo, il primo disobbediente della Bibbia, colui che «ingannato dalla sua presunzione (praesumptione deceptus), allungò la mano verso l’albero per usurpare l’incomunicabile e irrinunciabile attributo divino, che il Figlio di Dio possedeva, non per usurpazione ma per natura»[4]. Consapevole del rischio della superbia legata alla materia della Commedia, ovvero il giudizio sul mondo e sulle anime che solo Dio conosce; conscio del pericolo di autoproclamarsi scriba Dei contro il volere del cielo; per non attribuire tutto ciò ai suoi sforzi, all’«altezza d’ingegno» di cui già Cavalcante de Cavalcanti aveva parlato a proposito di suo figlio[5], Dante autore sottolinea senza sosta che l’opera di cui va riempiendo le carte (cfr. Purg. XXXIII, 139) è sì frutto delle sue abilità poetiche, ma anche e soprattutto dell’aiuto di Dio:

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate (Inf. II, 7);

O gloriose stelle, o lume pregno

di gran virtù, dal quale io riconosco

tutto, quel che si sia, ‘l mio ingegno (Par. XXII, 112-114)

Tali ammissioni culminano nelle solenni definizioni della Commedia quale «sacrato poema» (Par. XXIII,62) e «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2).

La seconda considerazione riguarda la necessità della grazia nel processo di ascensio. Se il volo di Ulisse è «folle» perché compiuto senza l’aiuto e il volere di Dio, Dante compie il suo viaggio accompagnato e sostenuto fino all’ultimo dalla grazia. Solo essa permette al pellegrino di varcare i regni ultraterreni da vivo[6] e, tramite Beatrice, di salire la montagna del Purgatorio e compiere cosi il suo rinnovamento spirituale[7]. È frutto della grazia l’esperienza del Paradiso, la solenne professione di fede davanti a San Pietro che ne certifica l’ortodossia[8] e della virtù della speranza che lo sostiene[9]. È solo l’«abbondante grazia» (Par. XXXIII, 82) che permette al pellegrino di poter finalmente «ficcar lo viso per la luce etterna» (Par. XXXIII, 83).

[1] N. FOSCA, Paradiso, commento ad locum.

[2] Idem, Inferno, commento ad locum.

[3] BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sentenze, III, 89.

[4] AGOSTINO DI IPPONA, Commento al Vangelo di Giovanni, Omelia 79, in www.augustinus.it. Di seguito il testo latino: «Rapuerat autem Adam peccatum, quando manum in arborem praesumptione deceptus extendit, ut incommunicabile nomen inconcessae divinitatis invaderet, quam Filio Dei natura contulerat, non rapina». Vd. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, In Evangelium Ioannis, Tractatus 79, in www.augustinus.it

[5] Cfr. Inf. X, vv.

[6] «qual merito o qual grazia mi ti mostra?» (Purg. VII, 19) chiede Sordello a Dante. Nel canto successivo leggiamo: «vieni a veder che Dio per grazia volse» (Purg. VIII, 66). In Purg. XIV uno degli invidiosi dice a Dante: «tu ne fai / tanto meravigliar de la tua grazia».

[7] «Donna è di sopra che m‘acquista grazia» dice Dante in Purg. XXVI, 59.

[8] Così San Pietro: «La grazia, che donnea / con la tua mente, la bocca t’aperse / infino a qui come aprir si dovea» (Par. XXIV, vv. 118-120).

[9] «Poi che per grazia vuol che tu t’affronti / lo nostro Imperadore, anzi la morte, / ne l’aula più secreta co’ suoi conti, // sì che, veduto il ver di questa corte, / la spene, che là giù bene innamora, / in te e in altrui di ciò conforte». Così San Giacomo in Par. XXV, vv. 40-45.