L’alfabeto di Dante
Quell’ uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive,
tre volte era cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,
ch’ad ogne merto saria giusto muno. (Par. XIV, 28-33)
Così scrive Dante nel quattordicesimo canto del Paradiso, in uno slancio che unisce teologia e poesia, il linguaggio della fede con quello dei poeti. L’indicibile mistero della Trinità, per sua natura non comprensibile ma degno di fede più di ogni altro dogma perché inerente alla natura stessa di Dio, è cantato dal poeta attraverso il riferimento ai numeri: quel Dio che è uno e trino («uno e due e tre») e vive e regna nelle tre persone della Trinità («in tre e ‘n due ‘n uno») era cantato dagli spiriti del cielo del Sole con una melodia talmente dolce che già essa sola sarebbe giusto premio ad ogni merito.
Osserva giustamente Carlo Grabher che qui il poeta fa sentire «l’immedesimarsi e il distinguersi insieme delle tre persone; e prima il crescere quasi dell’una dall’altra nella loro distintiva unità – uno e due e tre – poi l’eterno immanente ritorno dalla trinità all’unità – in tre e ‘n due e ‘n uno – sì che quella che sembra una ripetizione o una semplice inversione di termini serve a rappresentare il circolare mistero di Dio che è uno, il Padre, ma anche due, Padre e Figlio, e anche tre, Padre, Figlio e Spirito Santo»[1]. Il numero 3, caro a Dante sin dalla Vita Nova, dove Beatrice è assimilata al 9[2], ora all’altezza della Commedia, diventa la cifra stessa di Dio. E si noti che in questa terzina, dedicata alla celebrazione della Trinità, tale numero ricorre per tre volte (vv. 28, 29 e 31) e il riferimento alla Trinità si chiude al verso 33.
Dante costruisce l’impianto della Commedia erigendolo sul numero tre. Ai tre luoghi del suo viaggio ultraterreno corrispondono le tre cantiche: Inferno, Purgatorio, Paradiso. Ogni cantica è composta da 33 canti che, sommati a quello iniziale che introduce a tutta l’opera, danno 100, numero che esprime completezza. Così come l’ultimo canto e del Purgatorio e del Paradiso è composto da 145 versi, la cui somma di ogni cifra (1+4+5) è 10. Nel suo viaggio il pellegrino è accompagnato da tre guide: Virgilio, rappresentante illustre della poesia latina e simbolo della ragione; Beatrice, donna insieme reale e simbolica che incarna l’amore e la fede; San Bernardo, mistico e «contemplante» (Par. XXXII, 1) che guiderà Dante fino a Dio.
L’inferno è diviso in 9 cerchi e qui Dante incontra tre fiere (il leone per la superbia, la lonza per la lussuria e la lupa per l’avarizia). L’ingresso nell’inferno avviene nel canto terzo, i cui primi nove versi riportano le parole scritte sulla porta del regno, e rimandano alle tre persone della Trinità: «fecemi la divina podestate, / la somma sapienza e ‘l primo amore» (Inf. III, vv. 5-6). L’ultima visione infernale sarà dedicata a Lucifero, le cui tre teste sono parodia della Trinità divina. A quest’ultima rimandano poi i nove cieli di cui è formato il Paradiso e i tre cerchi concentrici, ma di diverso colore, che raffigurano il mistero del Dio Trinità.
A questa struttura trina e trinitaria appartiene anche la forma metrica della terzina, con cui l’Alighieri decide di raccontare il suo viaggio. Così la rima incatenata ABA BCB CDC «garantisce la ripetizione di ogni rima tre volte, tranne la prima e l’ultima, che tornano solo due volte» e consente al poeta di dare «un’impronta simbolica anche al metro del suo poema, in un duplice senso: da un lato, ogni strofa è composta di tre versi, e dunque assume nella sua stessa architettura fondamentale il numero sacro; dall’altro, essendo ogni terzina costituita da due versi esterni in rima tra loro che ne chiudono uno interno, si instaura, nello sviluppo del canto, una progressione della rima che accompagna e in qualche adombra l’avanzamento del pellegrino nel sua viaggio verso Dio» (E. Malato). Anche dal punto di vista metrico, dunque, Dante mette in scena – e in rima- il «nuovo e mai non fatto cammino di questa vita» (Convivio).
[1] C. GRABHER, Commento ad locum.
[2] «Questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade» (Vita Nova).