L’alfabeto di Dante

Cari lettori,

con quest’ultimo appuntamento termina la mia – fortunata? – rubrica dantesca. È stata una bella esperienza, che mi ha fatto scoprire o riscoprire la potenza e soprattutto l’attualità dei versi di Dante. Ora non ci rimane che avventurarci in quest’ultima traversata che ha per oggetto la parola forse più significativa dell’esperienza del pellegrino: viaggio.

«a te convien tener altro viaggio» (Inf. I, 91). Così dice Virgilio nel primissimo canto della Commedia rivolgendosi all’uomo smarrito nella selva. Mentre Dante cerca disperatamente di salvarsi dalle fiere che ostacolano il suo cammino verso il «dilettoso monte» (Inf. I, 77), Virgilio gli prospetta l’occasione di convertire quel cammino accidentato in un vero e proprio pellegrinaggio alla ricerca della felicità perduta:

“A te convien tenere altro vïaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;

(…)

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti”. (Inf. I, vv 91-93, 115-120)

L’«altro viaggio» è la Commedia, il racconto del «fatale andare» (Inf. V, 22) del pellegrino per i tre regni ultraterreni. E commuove leggere che la temeraria proposta di Virgilio scaturisca alla vista del pianto dell’uomo smarrito: «poi che lagrimar mi vide». Commenta l’autore del codice cassinese: «Notat auctor quod vir sapiens est pius et compatitur vitiis aliorum et dirigit errantes consilio suo»[1]. Il pianto di Dante commuove il poeta latino, come le lacrime di Beatrice lo avevano fatto «al venir più presto» (Inf. II, 16). Perciò, nella sua magnanimità, Virgilio è in grado di comprendere e compatire i vizi e i mali dell’errante smarrito nella selva, tanto da volerlo riportare sulla retta via. La Commedia nasce dunque dall’incontro tra il pianto di uomo angosciato e la cortesia di un animo nobile, dall’abbraccio tra la miseria del peccatore che grida «miserere di me» e la misericordia di Dio che interviene in soccorso del misero per effondere su di lui l’abbondanza del suo amore.

«Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno». Queste parole del salmo 50 esprimono bene non solo la funzione di guida di Virgilio, chiamato da Beatrice in soccorso di Dante (un pagano che deve guidare un cristiano sulla via della conversione!), ma anche quella che sarà la missione stessa del poeta. A partire dall’incontro con la donna amata nel Paradiso terrestre, Dante comprenderà che oltre alla visione di Dio, che è la meta del suo viaggio e che riguarderà lui solo, vi è anche un fine pratico rivolto a tutti gli uomini. Così diventa chiaro che il viaggio non si risolve in un incontro intimistico tra Creatore e creatura, ma deve raggiungere tutti gli uomini (si tratta infatti della «nostra vita»!) diventando annuncio profetico di una nuova era. L’incipit del salmo 50, il «Miserere di me» posto da Dante poeta sulle labbra di Dante personaggio, contiene dunque in nuce l’intero senso del viaggio e del poema: dalla miseria della propria condizione all’annuncio profetico di un nuovo mondo fondato sulla giustizia.

La missione di Dante è precisa e corrisponde al suo itinerario percorso: far capire a chi è senza strada, a chi è smarrito come lo era stato lui nella selva, che rimettersi sulla «diritta via» (Inf. I, 3) è sempre possibile. E il poeta lo fa capire non con un’arida esortazione, ma attraverso la testimonianza di quanto avvenuto a lui per primo e di quanto ha appreso nell’incontro (o scontro) con le anime dei tre regni. Il viaggio della Commedia è dunque il viaggio della vita di ogni uomo, dell’everyman che vive sulla terra. E del senso di questo viaggio Dante deve renderne testimonianza:

«Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia» (Par. XVII, vv. 133-142)

È qui spiegato il senso della vita di Dante e del suo «poema sacro» (Par. XXV, 1). Se le parole di Virgilio mettevano in moto l’«altro viaggio» e ne illustravano il contenuto, ora le parole di Cacciaguida esplicitano l’alto valore profetico del poema. Qui si saldano l’esperienza del viaggio e la scrittura del volume che il poeta va stendendo traendolo dalla sua stessa mente[2]. Tutto quello che Dante ha racchiuso nelle pagine della sua «comedìa» costituisce un grido che «come vento» percuoterà i monti più alti, ovvero i potenti del mondo. Così Dante «si colloca al di sopra delle potestà terrene e la sua parola suona rimprovero e ammonimento ai grandi, per lo più responsabili della corruzione e del traviamento dell’umanità»[3] e tutto questo conferirà al poeta non poco «onor».

Ma quale onore? Dante si aspetta onore e fama dal suo poema, tanto da sperare di essere incoronato poeta nella sua Firenze[4]; tuttavia già all’altezza del Purgatorio, riflettendo su quella particolare forma di superbia che macchia gli artisti, egli aveva compreso che l’onore e la fama delle cose terrene sono destinare a svanire:

«Oh!», diss’io a lui, «non se’ tu Oderisi,

l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte

ch’alluminar chiamata è in Parisi?

«Frate», diss’elli, «più ridon le carte

che pennelleggia Franco Bolognese;

l’onor è tutto suo, è mio in parte. (Purg. XI, vv. 79-84)

Exemplum di superbia artistica, il miniatore Oderisi da Gubbio è costretto ad ammettere che l’onore proveniente dalla sua arte è ora passato nelle mani del collega Franco Bolognese. Per questo Dante riconosce che

Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato (Purg. XI, vv. 100-102)

Come far coincidere l’alto compito della stesura del poema con l’umiltà di chi sa che questa impresa è destinata a svanire come tutte le cose della terra, per loro stessa natura caduche e passeggere? Come rendere nullo il rischio di superbia collegato all’«onrata impresa» (Inf. II, 47) del viaggio ultraterreno? La risposta è in Dio. Solo Lui permette ad un «fiato di vento» come il «mondan romore» di diventare un «vento / che le più alte cime percuote». Da qui l’affidamento del viaggio nelle mani di Dio, colui che non muta; da qui l’umile definizione di Dante quale scriba Dei; da qui la fervente richiesta di Bernardo indirizzata alla Vergine con cui si apre l’ultimo tratto del viaggio ad Deum:

Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,

supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute. (Par. XXXIII, vv. 22-27)

La visione de «le vite spiritali ad una ad una» è il succo di tutta l’esperienza ultramondana. La stessa narratività della Commedia «è un viaggio che interseca altri viaggi; ogni volta che il pellegrino incontra un’anima, la sua vita ne interseca un’altra» (T. Barolini). E come ogni vita è unica e preziosa, così i versi di Dante rimangono altrettanto unici e preziosi.

[1] Codice cassinese ad locum, in www.dante.dartmouth.edu

[2] …e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra. (Inf. II, vv. 3-6)

[3] Umberto Bosco e G. Reggio, commento ad locum.

[4] Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra; (Par. XXV, vv. 1-6)