L’alfabeto di Dante
Potremmo comprendere il significato più vero dell’esperienza narrata dal poeta nella Commedia,concentrandoci sulla differenza tra il personaggio di Ulisse, dannato nell’Inferno tra i consiglieri fraudolenti, e il pellegrino che compie il viaggio ultraterreno. Innanzitutto occorre sottolineare ciò che li accomuna: entrambi sono viaggiatori in cerca di un oltre che soddisfi e appaghi la propria vita. Dante ed Ulisse, infatti, si mettono entrambi «per l’alto mare aperto» (Inf. XXVI, 100) dell’esistenza, in cerca di una «esperienza» (Inf. XXVI, 116), termine che appare per ben due volte nel canto di Ulisse. Egli si mette in viaggio spinto dal desiderio di conoscere ciò che era ignoto al suo mondo. Niente poté fermare in lui
…l’ardore
ch’i’ ebbi a divernir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore (Inf. XXVI, vv. 97-99)
E quando Ulisse dovrà convincere i suoi compagni d’avventura a proseguire l’esplorazione delle vaste acque (Inf. XXVI, 117), così si rivolge loro:
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente” (Inf. XXVI, 112-)
Questi versi costituiscono la cosiddetta «orazion picciola» (Inf. XXVI, 123), come lo stesso Ulisse definisce le sue parole. Con essa il temerario navigatore sprona i suoi compagni («frati») di viaggio a condividere con lui l’esplorazione del mondo sconosciuto. Negare l’esperienza dell’ignoto equivale per lui a non avanzare nel processo di conoscenza che differenzia gli uomini dai «bruti» (Inf. XXVI, 120). Pur contenendo certamente valori positivi e condivisibili nell’ambito della ricerca della conoscenza su cui Dante si era già soffermato nel Convivio[1], l’orazione nasconde un inganno. Nel discorso di Ulisse, infatti, «parole giuste sono piegate a fine ingiusto: violare ogni limite in nome di una sapienza mondana disgiunta dalla teologia»[2].
Nell’ambito della teologia, Bernardo di Chiaravalle afferma che l’esperienza, quale sete di provare e conoscere il nuovo senza l’aiuto di Dio, porta con sé la macchia del peccato di Eva, la quale «udendo dire “Non morirete affatto” non teme di sperimentare quanto è proibito»[3]. Come il desiderio di conoscere il proibito è l’origine del peccato di Eva, così «l’ardore» di andare «oltre» le colone d’Ercole è la causa del peccato di Ulisse[4]. Al pari dei progenitori, Ulisse non è colpevole di aver desiderato la «canoscenza» (Inf. XXVI, 120), quanto di aver voluto oltrepassare il limite del conoscibile, provando a conoscere quello che solo Dio può conoscere, essendo Egli somma sapienza. La cifra del peccato dell’eroe consiste nel «trapassar del segno» (Par. XXVI, 117). Nel giardino dell’Eden Eva aveva sottratto con forza il frutto che poteva essere ricevuto solamente per dono; nell’«alto mare aperto» Ulisse vuole conoscere in forza del suo ingegno ciò che può essere esperito per pura grazia. Adamo si era fidato delle parole di Eva, che a sua volta si era fidata delle parole del serpente («Non morirete affatto»); i compagni di Ulisse si fidano delle parole ingannatrici dell’impavido navigatore. Da qui la presenza di Ulisse nell’ottava bolgia, quella dei consiglieri fraudolenti.
Se l’invito alla conoscenza da parte di Ulisse sembra contenere la naturale premessa all’avventura che da lì a poco sarebbe iniziata, i versi successivi si tingono di oscuro e rivelano finalmente la vera natura di un viaggio destinato a concludersi nel peggiore dei modi:
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ALI al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino (Inf. XXVI, 121-126)
L’impresa di Ulisse appare temeraria perché compiuta sulla base delle povere e limitate forze umane. Il «folle volo» è il riproporsi del primo peccato che aveva interrotto l’amicizia tra Dio e l’uomo, tra il Creatore e la creatura. Ulisse si macchia di quella «superbia che consiste nel non tener conto dei limiti, dei divieti, dei confini che Dio ha posto alla natura umana, anche alla più perfetta, com’era quella di Adamo»[5]. Nella sua «follia», Ulisse intravede nei «remi» delle potenziali «ali» che lo avrebbero dovuto portare fino alla «montagna bruna» del Purgatorio. Il pellegrino, invece, arriva al secondo regno solo dopo essere disceso nell’oscurità dell’Inferno ed essersi cinto del giunco, simbolo di umiltà. Non a caso le anime che sbarcano sulla sponda del Purgatorio sono trasportate su un «vasello snelletto e leggero» (Purg. II, 41) che, a differenza dell’imbarcazione di Ulisse, raggiunge senza difficoltà l’approdo ultraterreno. Esso è guidato da un angelo, il «celestal nocchiero» (Purg. II, 43), la cui descrizione non può non riportare alla mente del lettore attento il viaggio di Ulisse:
Vedi che sdegna li argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l’ALI sue, tra liti sì lontani.
Vedi come l’ha dritte verso ‘l cielo,
trattando l’aere con l’etterne penne,
che non si mutan come mortal pelo. (Purg. II, vv. 31-36)
Nella realtà dell’angelo è racchiuso uno dei più grandi temi della Commedia. Con le forze umane non si giunge al termine vero dell’uomo, a Dio; ci vogliono forze divine. Quelle forze che a Dante non mancano e che sono l’amore di e per Beatrice che gli consentirà di arrivare al «fine di tutt’ i disii» (Par. XXXIII, 46).
[1] «Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti». Cfr. D. ALIGHIERI, Convivio, in www.danteonline.it
[2] B. BASILE, Tragedia di Dante, tragedia di Ulisse. Lettura di Inf. XXVI, pag. 147.
[3] BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sentenze, III, 89. Di seguito il testo latino: «».
[4] «acciò che l’uom più oltre non si metta» si legge in Inf. XXVI, 109.
[5] BOSCO U., Dante vicino. Contributi e letture, Roma, S. Sciascia Editore, 1966, pag. 61.