Nessuno si illuda che la partita possa essere vinta a tavolino o giocata secondo l’approccio burocratico. Bisognerà scendere in campo. Servirà il catenaccio e la mobilitazione popolare

Sarebbe utile richiamare la grande lezione di don Tonino Bello e dei CAM (Comitati Alta Murgia). Chi non ricorda la marcia di protesta snodatasi tra Gravina e Altamura trentacinque anni fa, frequentata da migliaia di persone contro la crescente militarizzazione della Puglia? Una reazione forte al tentativo di depauperare il territorio, di umiliarne la grande bellezza.

foto di Luciano Montemurro © Torre di Nebbia

E ci risiamo

Quella che sta per disputarsi è, per certi versi, una partita già vista: tra madre terra e chi ne ha abusato; tra madre terra e chi intende ancora violarla. Giocata nello stesso scenario di allora: la dorsale murgiana che lega Gravina in Puglia ad Altamura e prosegue fino a Matera, quasi a lambire la costa jonica.

Partita già vista, ma non già vinta anche questa volta. Ci vorrà, ora come allora, la fermezza della società civile e delle forze politiche orientate al futuro, la lungimiranza dell’ambientalismo, l’intelligenza di chi ama il proprio territorio e ne conferma la vocazione, la responsabilità di chi promuove sviluppo sostenibile, il carisma di chi fa cultura, la spinta profetica di chi orienta la chiesa lungo la navata del mondo: per suscitare consapevolezze generative, per promuovere azioni popolari.

Se la storia insegna

L’autorità regionale di allora, prona alle esigenze del governo centrale, aveva già adottato lo strumento normativo capace di trasformare stabilmente la Murgia barese nord occidentale in tre giganteschi poligoni di tiro permanenti per esercitazioni militari. L’operazione, ricca di corollari (fra cui la dislocazione di F35 nella base militare di Gioia del Colle) vagheggiava un territorio da trasformare in “arco di guerra”, contro i Sud del mondo detentori della risorsa energetica petrolifera. Don Tonino Bello, figlio spirituale di papa Giovanni XXIII e di Giorgio La Pira, desiderava invece la Puglia come “arca di pace” nel Mediterraneo. Il monito dell’amato Pastore? “La nostra terra ha una sola vocazione: quella della pace! Chi ne distorce l’orientamento o ne strumentalizza il significato per fini di parte, provoca non solo la rabbia dei poveri ma anche il disgusto di Dio”.

Scenario sostanzialmente simile a quello odierno: da una parte le istituzioni centrali, forti del loro potere; dall’altra i “sognatori”, saldi nelle loro motivazioni etiche e di tipo ambientale, trasversalmente alleati per la valorizzazione del territorio e di chi lo abita.

Gli eventi di allora confluirono, non senza difficoltà, in due importanti risultati propiziati dalla partecipazione popolare: l’abrogazione della delibera regionale istituiva dei megapoligoni militari permanenti di Torre di Nebbia, Murgia Parisi Vecchio e Madonna del Buon Cammino; l’istituzione, il 1° luglio 2004, del Parco nazionale dell’Alta Murgia.

foto di Luciano Montemurro © Torre di Nebbia

La partita in atto

Il fatto odierno è che occorre invece individuare e realizzare anche in Italia, come in altri Paesi europei, il sito unico di stoccaggio delle scorie nucleari e dei rifiuti radioattivi. La materia energetica come trait d’union. Si tratta di attuare la direttiva Comunitaria 2011/70/Euratom, a lungo ignorata dall’ordinamento interno, tant’è che la Commissione europea ha aperto formalmente la procedura d’infrazione contro il governo italiano, recidivo di inattività dall’agosto 2015. Altra data da tenere presente è il 2025, quando saranno riprocessati i “rifiuti” che il nostro Paese è riuscito a depositare temporaneamente in Francia e in Gran Bretagna. Il cronoprogramma per la scelta del deposito nazionale unico di materiale radioattivo e per l’allestimento e l’attivazione del relativo sito di stoccaggio in sicurezza, richiederebbe almeno 7 anni di lavoro intenso. Pur risultando impossibile rispettare la scadenza, i ministri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, cui compete dipanare la matassa, decidono comunque di procedere. Il primo passo consiste nell’individuare l’area di stoccaggio dei rifiuti.

Il sarcofago radioattivo

Al Deposito unico nazionale, del tutto simile a un sarcofago radioattivo, sarà affiancato un Parco tecnologico la cui funzione non è del tutto chiara, ed è comunque addolcita dal significato letterario della denominazione, che lega appunto l’idea di “parco” alla natura e al verde, quella di “tecnologia” all’innovazione e al futuro.

I due insediamenti si svilupperanno rispettivamente su 110 e 40 ettari di superficie: nel complesso l’equivalente di 200 campi di calcio. Richiederanno un investimento di 900 milioni di euro, finanziati dalla componente tariffaria A2RIM della bolletta elettrica pagata dai cittadini titolari di utenza. A detta della Sogin, società statale incaricata della gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, l’investimento genererà 4 mila posti di lavoro durante i 4 anni di cantiere, e circa 700 addetti in fase di esercizio.

Tipologia di rifiuti

Nella “struttura” saranno ospitati due tipi di “rifiuti”: tutte le scorie degli impianti nucleari definitivamente chiusi in Italia nel 1990, dopo il referendum abrogativo dell’87, e attualmente stoccati in depositi temporanei lungo la penisola e all’estero (vale a dire 17 mila metri cubi di materiale radioattivo a media e alta attività, con radionuclidi riverberanti per migliaia di anni), nonché i rifiuti radioattivi di origine medico-ospedaliera utilizzati in fase di diagnosi e terapia o derivanti dalla ricerca (78 mila metri cubi di materiale a bassa e media radioattività, riverberanti per almeno 300 anni). Quantità da stipare in una struttura a matrioska costituita da 90 costruzioni in calcestruzzo armato (dette celle) al cui interno saranno alloggiati altri contenitori in calcestruzzo speciale (detti moduli), guscio protettivo di contenitori metallici spesso ammalorati e in cui già risultano affastellati i rifiuti radioattivi seppure non del tutto pronti per il trasporto.

La mappa dello scandalo

Ma la domanda da 900 milioni di euro è: dove collocare il deposito unico che nessuno vorrebbe sul proprio territorio?

Si chiama Cnapi la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. Quella appena pubblicata ne individua 67 (dette zone) dislocate in 7 regioni, la maggior parte delle quali nel Centroitalia e nel Mezzogiorno, vale a dire proprio nei territori meno interessati dall’attività e dalla produzione pregressa di materiale radioattivo: 8 zone in Piemonte, 24 tra la Toscana e il Lazio, 17 tra la Puglia e la Basilicata, 14 in Sardegna, 4 in Sicilia.

Le individuazioni derivano dall’applicazione di 25 criteri dettati dall’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) già nel 2014, distinti in “criteri di esclusione” e “di approfondimento”, per effettuare una sorta di selezione all’inverso che approda a un ordine di priorità (secondo la distinzione in classi A1, A2, B e C) delle aree individuate in base a caratteristiche fisiche, chimiche, naturalistiche e antropologiche. Insomma: procedendo in negativo e per esclusioni, il sistema ricava le aree ritenute effettivamente idonee, fra cui sceglierne, alla fine, una soltanto.

Le esclusioni riguardano le zone caratterizzate da sismicità elevata, quelle vulcaniche, quelle a rischio di frane e di alluvioni, quelle affacciate sul mare, e naturalmente le aree densamente popolate.

foto di Luciano Montemurro © Torre di Nebbia

Assenza di indicatori positivi e Alta Murgia barese

Ma chi ha elaborato la mappa, si è guardato bene dall’adottare indicatori positivi quali la vocazione del territorio, il patrimonio di biodiversità custodito, il suo pregio attrattivo sul piano paesaggistico e del benessere, i percorsi di tutela e di sostenibilità ambientale già praticati con il sostegno delle istituzioni. Che senso avrebbe, ad esempio, sostenere l’agriturismo murgiano con i POR Puglia di radice comunitaria, se ora s’intende procurare la desertificazione di fatto del territorio adiacente agli interventi effettuati? E come salvaguardare le tante attività rurali esistenti, agricole e zootecniche, configurate andando oltre la solita rappresentazione della Murgia come pietraia (laddove anche la pietra gode di una sua civiltà: fatta di muri a secco, di jazzi, di masserie lungo i tratturi della transumanza)?

Mancano, insomma, i criteri che darebbero caratura e prospettiva al fatto ecologico e, per amplificazione, persino all’ecologia integrale proposta da papa Francesco. Che è un percorso di riconciliazione con se stessi, con il creato, con l’altro da sé e con il trascendente, laddove il planare di un falco grillaio o la sosta in solitudine o in compagnia nello scenario di rara bellezza murgiana, si coniuga con il silenzio introspettivo che offre sorsi di vita rigenerata e incrementa orizzonti di senso. Per non dire delle emozioni giurassiche che possono scaturire dalle orme di dinosauro impresse 10 milioni di anni fa in località Pontrelli presso Altamura, o dell’Ominide di Lamalunga, vissuto 100 mila anni fa nel “perimetro” storico e geografico che oggi chiamiamo Parco, assecondando l’evoluzione della specie da Homo di Neanderthal a Homo erectus.

Accade, così, che l’Alta Murgia barese, custode di questo tesoro e concentrato di bellezza, cioè di un contesto naturale e umano che alberga in Zona speciale di conservazione della Rete Natura 2000, volta a tutelare habitat e specie protette, e che risulta candidata a Geoparco Unesco, possa essere ancora una volta sfregiata perché accostata a zone candidate in classe A2 per il deposito unico nazionale di sostanze radioattive: segnatamente la BA-5, la BA_MT4 e laBA_MT5, e anche la MT-3, la TA_MT-17 e la TA_MT-18.

Dalla pratica del meretricio, il “meccanismo di consolazione” previsto dall’autorità politica con il decreto legislativo 31/2010: riconoscerà, al territorio devastato, un contributo economico da patteggiare fra gli enti locali e la Sogin. Compenso una tantum per l’“abuso d’ufficio” e lo scempio procurato. Di almeno tre secoli, ma in ipotesi anche di millenni, tanto quanto durerà l’insidia radioattiva. Non il risarcimento del danno morale e materiale, ma una sorta di mancia che da pugliese rinvierei volentieri al mittente.

Ora come allora

Il copione prevede, nell’immediato, una fase di considerazione pubblica che si protrarrà per sei mesi, fino a giugno 2021: i primi due mesi, per consultare la documentazione ministeriale in vista di eventuali note di precisazione e di ricorso; gli altri, per organizzare il cosiddetto Seminario nazionale con la partecipazione dei “soggetti interessati” al deposito (sic!): comuni, associazioni di categoria, sindacati, università ed enti di ricerca desiderosi di approfondire ogni aspetto dell’operazione, fino a manifestare possibili candidature. Seguirà la decisione finale.

Si esclude, invece, la partecipazione popolare attiva, quella fatta di movimenti e di mobilitazione. C’è chi vocifera, anzi, che la tempistica della selezione, che dovrebbe esaurirsi nel perdurare della pandemia, sia stata studiata proprio per impedire una nuova “marcia dei centomila”, come quella di Scanzano Jonico nel 2003. La cava di salgemma di Terzo Cavone nel territorio di Scanzano era stata allora prescelta dall’autorità governativa come “soluzione finale e ottimale”. La mobilitazione popolare, accompagnata dai picchetti di non accesso all’area di presunto stoccaggio, procurò invece la revoca del decreto. E tanto era “ideale” la soluzione di allora, che nella mappatura attuale, elaborata dalla stessa società selezionatrice Sogin, Scanzano non compare affatto, neppure in classe C residuale.

Ecco cosa insegna la storia politico-sociale contemporanea: marcia dei centomila – cuore, responsabilità e coscienza – anche questa volta, almeno come extrema ratio. Se non dovesse funzionare il buon senso e la ragione di chi è chiamato ad agire secondo giustizia in senso sostanziale. Cioè con cuore, responsabilità e coscienza.


FonteIn copertina: foto di Luciano Montemurro © Torre di Nebbia
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Renato Brucoli (Terlizzi, 1954) è editore e giornalista pubblicista. Attivo in ambito ecclesiale, ha collaborato con don Tonino Bello dirigendo il settimanale d’informazione religiosa della diocesi di Molfetta e il Settore emerge della Caritas, in coincidenza con il primo e secondo esodo dall’Albania in Italia (marzo-agosto 1991) e per alcune microrealizzazioni di ambito sanitario nel “Paese delle Aquile”. Nella sfera civile ha espresso particolare attenzione al mancato sviluppo delle periferie urbane e fondato un’associazione politica di cittadinanza attiva. Ha anche operato nella Murgia barese per la demilitarizzazione del territorio. Autore e curatore di saggi biografici su don Tonino Bello e altre personalità del Novecento pugliese, dirige la collana Alfabeti per le Edizioni Messaggero Padova. Direttore responsabile della rivista Tracce, collabora mensilmente con il periodico La Nuova Città. È addetto stampa per l’associazione Accoglienza Senza Confini Terlizzi che favorisce l’ospitalità di minori bielorussi in Italia nel dopo Chernobyl. L’Università Cattolica del Sacro Cuore, per la quale ha pubblicato una collana di Quaderni a carattere pedagogico sul rapporto adulto-adolescente, gli ha conferito la Medaglia d’oro al merito culturale. L’Ordine dei Giornalisti di Puglia gli ha attribuito il Premio “Michele Campione”: nel 2013 per l’inchiesta sul danno ambientale procurato da un’industria di laterizi; nel 2015 per la narrazione della vicenda umana e sportiva di Luca Mazzone, campione del mondo di paraciclismo.