Gerusalemme, Muro, Israele, Palestina, Checkpoint, Pace, Medio Oriente

Quando per la prima volta stai per salire su un aereo per Tel Aviv con destinazione finale Gerusalemme e non ci vai per motivi turistici, hai già trascorso un lungo periodo in cui cerchi di riempire uno spazio mentale di aspettative con quello che già sai – o credi di sapere – e ciò che affidi alla tua immaginazione.

Il questo caso, la fase preparatoria, oltre a coincidere con tristi e crude scoperte, è soprattutto una sfida psicologica, tra la tensione per la consapevolezza di avere come meta una zona di conflitti perenni e la curiosità e l’emozione di camminare di lì a poco su cinquemila anni di storia, tra la sacralità di edifici e paesaggi che ripagheranno le paure.

Eppure, con tutti gli sforzi e la dovuta preparazione-informazione, non riuscivo proprio ad immaginarla questa città così santa e tanto maledetta, dove spiritualità e male sembrano incastrarsi, in una convivenza chiamata normalità.

Iniziare a viverci poi, è un’esperienza polisemica, in cui i significati si moltiplicano ogni giorno, si contraddicono, si annullano e si ricostruiscono.

Vivere a Gerusalemme significa prima di tutto scoprire che la città non è divisa in due parti, che Est ed Ovest sono oggi due città diverse e che a segnarne il confine non è il famigerato muro grigio – come uno si aspetterebbe in base alla demarcazione della Linea Verde riconosciuta come limes territoriale – ma il drastico cambio di stile urbanistico, di abitudini, di abbigliamento, di stili di vita. Tipica città europea occidentale la Ovest, con tram di ultima tecnologia, parchi e servizi pubblici ben tenuti, bar e locali aperti di notte; città araba quella Est, che ingloba la parte vecchia con le policromie e gli odori di dolci e spezie dei suq affollati, i bambini con cui contrattare dietro i banconi, le donne velate e le giovanissime presenze militari che, con mitra alla mano, fanno ormai parte dell’arredo urbano, occupandolo.

Significa non metterci tanto a capire che Est quasi non conosce Ovest ed Ovest quasi non conosce Est.

Significa notare un doppio sistema di trasporto: uno arabo e uno israeliano, differente per qualità dei mezzi, tempi di percorrenza, costi. E passeggeri.

Significa imparare che ogni Porta o luogo sacro ha almeno quei due o tre nomi differenti, uno arabo, uno ebraico e uno inglese, che non sempre è la traduzione di una lingua o dell’altra.

Significa anche essere guardati con sospetto dai giovani soldati, quando cerchi di mettere alla prova le tue capacità linguistiche e chiedi in arabo al fruttivendolo della città vecchia “quanto costa il mango?”, espressione che hai appena imparato.

Significa scansare caterve di ignari turisti che ogni giorno la visitano, a cui certe guide raccontano di non spingersi oltre determinati luoghi, perché altrimenti ti sparano o ti lanciano le pietre.

Significa farsi spazio tra la folla e scorgere di tanto in tanto bandiere israeliane, sciorinate al vento non per mero patriottismo, ma come ostensione di proprietà, di conquista, di occupazione. E che di tanto in tanto, sorgono checkpoints, che rallentano la mobilità, bloccano quartieri e condizionano vite.

Vivere (a) Gerusalemme vuol dire imbattersi di tanto in tanto in filo spinato e blocchi di muro e non capirne il senso, lo stesso che se non ti chiedi il perché, ti sfugge quando sali su un terrazzo ancora più ad est e segui con lo sguardo il muro “di sicurezza”, che non procede dritto, ma serpeggia all’infinito su una lunghezza doppia rispetto a quella stabilita e riconosciuta a livello internazionale.

Significa (ad Est) che l’acqua dai rubinetti esce con scarsa pressione ed è fresca solo di sera, perché fino ad allora è riscaldata dal sole che colpisce le cisterne sui tetti.

Significa assistere quotidianamente a sfilate di chassidimi (ebrei ultraortodossi, vestiti di nero, con payot e cappelli) in corsa verso il Muro del Pianto – che loro chiamano Muro occidentale – e che quando il venerdì sera inizia lo Shabbat, giorno sacro per gli ebrei, a molti negozianti non ebrei viene imposta una chiusura anticipata.

Significa sedersi su una panchina e diventare improvvisamente l’interlocutore di Ibrahim, un rifugiato del campo di Shuafat, che mostra l’urgenza di comunicare allo straniero quel suo particolare status di rifugiato dentro la propria patria, che vive in un campo a qualche chilometro dalla sua vecchia casa distrutta, dove da ormai quattro generazioni la particolare condizione si trasmette eccezionalmente di padre in figlio, come fosse codice genetico. O ancora, vuol dire incontrare ragazzini con movenze adulte che hanno sperimentato il carcere e apprendere che in ogni famiglia esistono casi di prigionia per detenzione amministrativa, una procedura antidemocratica che permette l’arresto (e la carcerazione e le torture fisiche e psicologiche che ne conseguono) senza capo d’accusa preciso e senza processo. Significa sapere che con una certa regolarità vengono demolite case, vedere bambini con mitra giocattolo e madri comprargliele ai bazar.

Significa scoprire anche che le sue donne musulmane non sempre indossano lo jihab, che non escono di casa se non hanno perfettamente truccato il viso, che guidano sportivamente, fumano la shisha e vanno a zumba!

Significa sentir parlare di soprusi irrogati dall’esercito, che mirano alla distruzione della dignità umana ancor prima dell’integrità fisica, senza alcuna pietà che escluda anziani e bambini: vessazioni crudeli e disumane, che ti sembrano inconcepibili fin quando non sono i tuoi occhi a confermartelo, raccontate con un’inspiegabile leggerezza da chi le subisce, probabilmente unica reazione efficace ad affrontare l’abitudine e a coltivare la resistenza.

Significa vedere le cose diversamente da come le raccontano in tv e scoprire ogni giorno un altro aspetto dell’occupazione fino a quel momento trascurato, non visibile, ma così incisivo e disumanizzante.

Significa fermarsi davanti alla Porta di Damasco e immaginare come doveva essere in un passato non così poi remoto: uno spazio simbolo delle relazioni interculturali, di scambi, amicizie solidali che non conoscono discriminazioni e riflettere sui danni sociali e valoriali di questa come altre crudeli invasioni coloniali, oltre a quelli inflitti alla democrazia, ai diritti, all’ambiente e all’economia. Capire qualcosa in più sui terrorismi, sulle sue concause e responsabilità, come delle sue strumentalizzazioni.

Lasciare Gerusalemme, poi significa altro. Vuol dire sentire di non poter tenertela per te, dover almeno provare a raccontarla perché qualcuno in più sappia che succede laggiù.

Senza quasi rendermene conto sono già nel taxi che mi riporterà verso casa. Gli occhi viaggiano fissi e perpendicolari al senso di marcia, accanto al finestrino aperto a metà per lasciare che il vento caldo mi massaggi il viso e mi rassicuri. Rincorro per l’ultima volta la dolcezza delle colline rocciose e degli antichi terrazzamenti. Ad interrompere l’armonia sempre loro, gli insediamenti lassù e qualche checkpoint. E mentre la radio emette melodie arabe e Mothasen il tassista racconta come sia complicata la situazione in città vecchia, immagino una Gerusalemme, che come una saggia signora con le scarpe consumate, perdona senza rancore l’atrocità dei torti subiti e, finalmente stanca ma spensierata, si riposa sotto l’ombra di un ulivo dalle radici ben salde, sorseggia un fresco succo di limone e menta, mentre il canto del muezzin si mescola con il ritmo delle campane e il suono aspro dello shofar, rivelando la sua totale e sacra bellezza.

Gerusalemme significa anche andare via, sperare di tornare e trovarla libera.

Un miracolo che non può venire dal cielo.