Suona la sveglia, Palestina. La spengo, non conviene dormire altri 5 minuti, chiamare il taxi, Palestina. Mamma che sonno, Palestina. Il caffè lo bevo qui, i soldi li prelevo a Roma, devo chiudere la valigia, prima mi lavo i denti, Palestina.

Questa più meno era la sequenza dei miei pensieri la mattina che mi son svegliato alle 04:30 per andare in Palestina. Ogni 2 o 3 pensieri ci inserivo la Palestina, sarei andato avanti per ore, incredulo del fatto che ci stessi tornando. Io sono stato in quella terra quasi un anno, tutto il 2011, poi ci sono tornato per un breve periodo nel 2012. Ci sarei dovuto tornare nell’estate del 2014, ma c’è stata la guerra con Gaza e ho evitato perché sono un rincoglionito e ho avuto paura delle bombe, come disse un prete amico mio che vive lì, quando seppe della rinuncia. Dunque tornare in Palestina era una delle cose che avevo più voglia di fare e quando quello stesso prete me ne ha offerto l’occasione a inizio maggio non c’ho pensato due volte. Ma neanche una. Non c’ho pensato proprio, è venuto naturale.

La Palestina ha il potere di donare una magia crudele e affascinante alle cose che la riguardano. Ovviamente non parlo della Palestina in sé, parlo della Palestina in me. Ad esempio quella mattina, mentre andavo in aeroporto, ho detto al tassista dove stavo andando e a fare cosa e mi ha fatto 5 euro di sconto. Avere 5 euro di sconto da un tassista di Milano è una magia, fidatevi. A proposito, sono andato a dare una mano alla casa accoglienza per bimbi disabili orfani in cui avevo lavorato nel 2011, perché erano un po’ a corto di personale.

Essendoci tornato dopo 3 anni immagino che dovrei raccontare di cosa è cambiato, tuttavia questo è un problema dovendo raccontare di un posto da cui ti sembra di non essertene mai andato. Sembra retorico dirlo, ha il sapore di una frase fatta, ma è la verità e non posso che riportarla così com’è. L’ansia per i controlli una volta atterrati al Ben Gurion sempre la stessa. Il pulmino da Tel Aviv a Tantur ferma sempre nello stesso punto. Nel tragitto, salendo verso Gerusalemme, mi si sono tappate le orecchie come sempre, al check-point di Betlemme soliti pruriti d’intolleranza appena sopra la nuca.

Nonostante un piano in più, Ramez che ora cammina e nuovi bimbi che per descriverli ci vorrebbe un grande scrittore, ho trovato tutto simile anche alla casa dove avevo lavorato. Ci sono andato la sera stessa che sono arrivato. Quando vivi un anno da qualche parte hai tempo di crearti delle abitudini e di consolidarle. Ad esempio Nariman mi chiedeva ogni giorno, tornata da scuola, se nel pomeriggio avremmo fatto la passeggiata in centro; Nadia mi domandava quotidianamente che giorno fosse, annunciandomi poi che il sabato di quella settimana sarebbe partita per l’Italia; Julia mi parlava dei suoi dolori alla schiena; Ala’a a un certo punto mi tirava per la mano per andarci a sedere sul divano vicini; Ramez insisteva che gli mettessi su il cartone di Topolino; il caffè dopopranzo preparato da me; la chiacchierata con Manar in giardino. “Facciamo la passeggiata in centro ora?” mi ha chiesto Nariman non appena rimesso piede alla casa: come faccio a dire cos’è cambiato?

Lo stesso a livello politico. Nel 2011, durante gli ultimi miei mesi di permanenza, avevo avuto la fortuna di vivere assieme ai palestinesi il loro primo tentativo di vedere riconosciuta la Palestina dall’ONU in quanto Stato. C’era molto fermento, molto entusiasmo e molta tensione. Io ero fiducioso, pensavo che il riconoscimento avrebbe portato a qualche cambiamento, se pur minimo. Molti miei amici invece pensavano che si trattasse di un’operazione puramente formale, che per loro non sarebbe cambiato niente. Quando provavo a convincerli mi sorridevano, alzavano le spalle e ripetevano “inshallah”. Quel tentativo andò a vuoto, l’anno dopo invece la Palestina è stata riconosciuta come Stato Osservatore. Poi sono successe altre cose: 2 sanguinosissime guerre con Gaza, il riconoscimento di molti Stati europei, i segnali di insofferenza del governo americano verso Israele, eppure avevano ragione i miei amici: nella vita dei palestinesi non è cambiato veramente niente. Sono solo aumentate le colonie, di diametro e di numero. Netanyahu, nella recente campagna elettorale che l’ha visto di nuovo trionfare, ha dichiarato espressamente che se avesse vinto lui non ci sarebbe mai stato uno stato palestinese, adesso voglio vedere con che coraggio tornerà a parlare di colloqui di pace. Con il coraggio di sempre immagino, quello della iena.

A questo punto però, visto che le cose che ho da raccontare sono ancora tante e lo spazio poco, racconterò solo le cose migliori. Il felafel migliore è stato ovviamente un felafel di Afteem, mangiato la sera stessa che sono arrivato. Il tramonto migliore quello del terzo giorno, che è stata anche la serata migliore. Sono andato a cena da Hamdan, il mio migliore amico palestinese, e la sua famiglia. Lui abita di fronte al Dheisheh, un dei tre campi profughi di Betlemme. Erano tutti contenti di avermi a cena e si scusavano se il pasto non era quello delle grandi occasioni, “torna domani che facciamo meglio” mi dicevano. A me quella che incuriosiva di più era la mamma. Mentre parlavamo a un certo punto mi ha detto che sarei andato in paradiso prima di suo figlio perché lui non prega quanto dovrebbe. Volevo dirle che non sapeva con chi stava parlando, ma poi ho retto la parte e me la sono tenuta. A fine cena mi hanno dato un bicchiere di acqua santa, presa e portata direttamente da La Mecca, un’acqua che aveva fatto 2000 chilometri. Ho apprezzato molto il gesto, come tutti gli altri gesti del resto.

Ad ogni modo, l’incontro migliore è stato l’ultima notte quando mi sono fermato a mangiare lo shawerma sulla strada principale di Betlemme e ho conosciuto 2 ragazzi di Gerusalemme (dunque arabi-israeliani) che la sera attraversavano il muro per sentirsi a casa in Palestina. Alla fine mi hanno offerto panino e bibita perché ero “l’ospite”, lo “straniero”. Il momento migliore è stato una sera, non ricordo quale, che ho messo a letto Ala’a e siamo rimasti a mandarci i baci volanti.

Per il resto, come ho detto su, tutto uguale. Soprattutto l’angoscia dei controlli al Ben Gurion quando sono ripartito. Anzi ero sorpreso del fatto che non mi avessero fatto il controllo dettagliato della valigia, poi sono arrivato a casa in Italia, l’ho aperta e c’era dentro un biglietto dove si diceva che ci avevano messo le mani senza me davanti, né la mia autorizzazione, se avevo reclami potevo chiamare al numero segnato. Io volevo chiamare per dire che mi avevano messo lo zatar (un spezia mediorientale) insieme ai vestiti e tutto odorava di zatar, ma poi ho pensato una parolaccia e ho desistito.

Allacciare le cinture, Palestina. Apro gli occhi, stiamo atterrando, fra poco posso fumare una sigaretta, Palestina. Prima cosa mi devo bere un caffè, il bagaglio lo prendo direttamente a Milano, non si può più andare in bagno, Palestina. Dovevo restare di più a salutare Ala’a, Palestina.

Questa più meno era la sequenza dei miei pensieri la sera che mi son svegliato alle 19:50 mentre atterravo a Roma. Ogni 2 o 3 pensieri ci inserivo la Palestina, sarei andato avanti per ore, incredulo del fatto che ci fossi appena stato. Palestina, dove quando sogno o son desto, mi sembra la stessa cosa.


2 COMMENTI

  1. Grazie davvero,mi sono molto commossa. una sola piccola inesattezza, i due ragazzi di Gerusalemme non sono arabo-israeliani, i palestinesi di Gerusalemme non hanno cittadinanza israeliana, ma una carta d’identità rilasciata da Israele e non hanno passaporto ma solo un lasciapassare e firse abdaano a mangiare i migliori kebab davanti al muro costruito intorno alla tomba di Rachele, quello che divide la strada principale di Betlemme.

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