Il caso Sea Watch3 e l’arresto (non convalidato) della capitana Rachete

«Il fatto contestato all’indagata Carola Rackete non può essere atomisticamente esaminato, ma deve essere vagliato unitamente ed alla luce di ciò che lo precede, ossia il soccorso in mare e gli obblighi che ne scaturiscono. In particolare, la Carta Costituzionale, le convenzioni internazionali, il diritto consuetudinario ed i Principi Generali del Diritto riconosciuti dalle Nazioni Unite pongono obblighi specifici sia in capo ai comandanti delle navi che in capo agli Stati contraenti, in ordine alle operazioni di soccorso in mare». Così esordisce l’ordinanza del Giudice (delle indagini preliminari) presso il Tribunale di Agrigento (dott. ssa Alessandra Vella) con la quale non ha convalidato l’arresto della “capitana”, rigettando altresì le misure cautelari richieste dalla Procura.

Un altro (autoproclamatosi) “capitano”, detto “Ministro dell’Interno” ciò nonostante, ha tuonato: «Sono schifato, mi vergogno per i magistrati. Per la magistratura italiana ignorare le leggi e speronare una motovedetta della Guardia di Finanza non sono motivi sufficienti per andare in galera. Nessun problema: per la comandante criminale Carola Rackete è pronto un provvedimento per rispedirla nel suo Paese perché pericolosa per la sicurezza nazionale. Tornerà nella sua Germania, dove non sarebbero così tolleranti con una italiana che dovesse attentare alla vita di poliziotti tedeschi».

In precedenza presunti fan del “capitano”, detti “Leghisti”, in occasione dell’arresto (non convalidato) auguravano alla Rackete di essere stuprata “a quattro a quattro” dai “negri”. «Zingara, venduta, tossica, vattene in galera, drogata. Vai dalla Merkel, vergogna. Le manette!» erano i commenti degli elementi più pacati dello stesso comitato di accoglienza.

Ma torniamo all’ordinanza che dopo un’ampia ricognizione dei dati normativi relativi all’obbligo del soccorso in mare procede ad un’accurata ricostruzione dei fatti:

  • la mattina del 12 giugno 2019 l’aereo Colibri segnalava alla Sea Watch3 la presenza di un’imbarcazione in potenziale situazione di distress a 47 miglia nautiche (1,852 km) dalle coste della Libia;
  • la nave della ONG a sua volta comunicava l’evento ai centri di coordinamento dell’Italia, Malta, Olanda e Libia;
  • la Libia comunicava di assumere il comando delle operazioni di SAR (search and rescue, ricerca e soccorso) mentre la Sea Watch3 procedeva al soccorso, trovandosi nei pressi dell’imbarcazione alla deriva che, secondo la descrizione della Rackete, “era un gommone in condizioni precarie”. A bordo “nessuno aveva un giubbotto di salvataggio”, non c’era “benzina”, nessuno aveva “esperienza nautica” e mancava “l’equipaggio”.
  • La Sea Watch3 chiedeva un porto sicuro alla Libia, a Malta, all’Olanda e all’Italia.
  • Alla richiesta rispondeva solo la Libia.

La motivazione accenna alla questione dei POS evocando (un po’ genericamente) le raccomandazioni del Commissario per i Diritti umani del Consiglio di Europa.

La questione è cruciale e merita approfondimento, al di là delle notizie di cronaca che riferiscono proprio oggi del bombardamento di un centro di “accoglienza” libico nel quale sono deceduti 40 “profughi”.

Nelle linee guida, pubblicate a giugno del 2019, tra l’altro si legge (capitolo 2, Garantire lo sbarco in un luogo sicuro): lo sbarco delle persone soccorse in un “luogo di sicurezza” (POS, place of security) è un parte integrante di ogni operazione di salvataggio. POS, place of security, è un luogo dove la sicurezza della vita delle persone soccorse non è più minacciata, dove è radicalmente escluso il rischio  di essere sottoposti a torture o trattamenti disumani o degradanti, dove i bisogni umani fondamentali (come cibo, riparo e esigenze mediche) possono essere soddisfatti, dove possono essere garantite modalità di trasporto sicuro verso la destinazione successiva o finale, dove sia escluso il respingimento verso territori in cui la vita e la libertà sono minacciate. Ciò posto, puntualizzano le raccomandazioni, «gli stati membri del Consiglio d’Europa hanno un chiaro obbligo di rispettare pienamente rispettare questo principio». Alla luce di queste premesse, le linee guida chiariscono che la Libia non può essere considerata un porto sicuro: «i migranti e i rifugiati … sbarcati in Libia sono routinely sottoposti a periodi di detenzione illimitata e arbitraria, estorsioni, lavori forzati, violenze sessuali e altri trattamenti inumani e degradanti».

Nelle raccomandazioni non si fa riferimento alla Tunisia che la Capitana ha ritenuto di considerare porto non sicuro sulla base delle notizie relative ad un’imbarcazione, la Sarost5 con sopravvissuti a bordo, ferma da venti giorni dinanzi al limite delle acque territoriali del paese della “mezzaluna”. È una questione cruciale e merita un approfondimento. Un’accurata ricerca pubblicata sul sito https://www.meltingpot.org/, a firma di Alice Passamonti, informa che la Tunisia ha firmato la Convenzione di Ginevra che riconosce lo status di rifugiato e nella Costituzione prevede “Le droit d’asile politique est garanti conformément à ce qui est prévu par la loi” (è altresì vietato “d’extrader les personnes qui bénéficient de l’asile politique”). Ciò nonostante non esiste una legge sull’asilo politico e una disciplina sul permesso di soggiorno. In questo contesto, la gestione delle persone soccorse in mare e sbarcate in un porto tunisino è “governata” da un “referencial system” (del quale fanno parte l’UNHCR, la Croce Rossa Tunisina. l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, il Consiglio Italiano per i Rifugiati e numerose ONG) che non garantisce il non refoulement (respingimento) verso paesi non sicuri, in particolare, il Niger.

Sotto questo profilo, la posizione della Rachete non era affatto peregrina ma il GIP avrebbe dovuto vagliare la dichiarazione resa e comunque integrarla con le considerazioni appena accennate. In ogni caso, nella prospettiva della salvaguardia dei diritti delle persone in mare non sembra che la scelta della capitana sia stata irragionevole o imprudente.

Gli unici porti sicuramente sicuri accessibili, nella zona SAR (security and rescue) in cui si è verificato l’evento, erano Malta e Lampedusa. Tra i due la scelta di Lampedusa sembra essere stata corretta perché il soccorso è avvenuto in un punto più vicino all’isola italiana.

Posta questa premessa, l’unico profilo della condotta tenuta dalla capitana suscettibile di valutazione penale (e, quindi, tale da giustificare l’arresto) è stata la manovra di attracco.

La violazione dell’ordine di chiusura dei porti (ex art. 11, co. 1-ter T.U. immigrazione), infatti, è sanzionata solo in sede amministrativa (la violazione, cioè, non integra un reato).

Da escludere sicuramente la sussistenza della violazione dell’art. 1100 cod. nav., incautamente contestata dai pubblici ministeri, perché (tra l’altro), come motiva il GIP, le unità navali della Guardia di Finanza sono considerate navi da guerra solo quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri dove non vi sia una autorità consolare.

L’unico reato configurabile, pertanto, era l’art. 337 del c.p. “Resistenza a un pubblico ufficiale”. Il GIP ha ritenuto che il fatto sussista. Ha escluso tuttavia la rilevanza penale, riconoscendo la scriminante dell’adempimento del dovere di soccorrere le persone esposte al rischio di un naufragio e di condurle in un porto sicuro, anche in presenza dell’ordine di chiusura del porto che, sia pure implicitamente, l’ordinanza considera illegittimo per il contrasto con l’ordinamento italiano.