«Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te».

(Franz Kafka)

Accantitudine.

Caro lettore, adorata lettrice, non spremere le meningi, non correre ad aprire il vocabolario della Treccani: accantitudine non è una parola approvata dall’Accademia della Crusca.

È un neologismo appena sfornato, regalatomi qualche giorno fa da una cara amica: e me ne sono innamorato al primo suono.

Accantitudine: ovvero la capacità di stare accanto e dentro le cose, accanto e dentro la realtà. Seduti, in silenzio, in attesa. In contemplazione.

Di cosa? Del mistero della vita, ovvio, e della morte: della loro inspiegabilità che solo il tempo sa e può dispiegare. Restare accanto al vuoto, per essere dentro. «In perfetto silenzio e solitudine», come scrive Kafka, come potremmo fare in questi giorni di dolore e oscurità, che invece ci affrettiamo a riempire di chiasso, barzellette, fake news, migliaia di messaggini: di tutto di più, pur di rompere il silenzio, pur di non essere messi a nudo da forze più grandi di noi.

Wittgenstein annotava: «Pregare è pensare al senso della vita». Prima di lui Sant’Agostino consigliava: «Ascolta l’altra parte».

Ma non sia mai! L’altra parte fa paura. Scendere in profondità, fa paura. Ammettere di aver paura, fa paura. Riconoscere la nostra fragilità, fa paura. Fa paura tutto ciò che è più grande di noi, e orribilmente ci affascina.

E invece l’accantitudine ci affranca dagli schemi, libera la nostra umanità e ci permette di restare sulla soglia. Ci rende capaci di abbracciare chi soffre, senza dire una parola e a chilometri di distanza. Di evitare parole di convenienza laddove solo un “ti voglio bene” avrebbe senso. Di ascoltare il silenzio di chi non ha più forze per parlare.

Thich Nhat Hanh rivela: «Il nostro sorriso è anche il sorriso degli altri, il nostro dolore è anche il dolore degli altri».

E così l’accantitudine si svuota per accogliere. Coltiva i più teneri germi di speranza. È il contrario dell’accanimento. È diabolico l’accanimento, è propria degli angeli l’accantitudine. Che non fugge, non insegue. Resta accanto.

L’accantitudine fa rima con stupore e gratitudine. Invita a danzare la vita. Partecipa di chi vive. Ma anche di chi muore.

Raimon Pannikar ha scritto che è un errore – si potrebbe persino dire che è da sciocchi – pensare di “sistemare e risolvere tutto”. Certo, in qualche modo, “andrà tutto bene”, ma tutto non si sistema. Il male esiste, la gente muore, anche quando non se lo merita, anche quando è ancora giovane e pensa di avere tutta la vita davanti, anche quando un virus invisibile unisce e divide il mondo nel terrore. Persino quando non puoi dare l’ultimo saluto ad un amico che va via…

E noi?

Noi, caro lettore, adorata lettrice, proprio come nella favola del minuscolo colibrì, possiamo fare solo il possibile e restare accanto all’impossibile. All’incomparabile: nel bene e nel male. Potremmo persino restare nella fede accanto all’incredulità o nell’incredulità accanto alla fede. Il che, dal mio umile punto di vista, fa ben poca differenza. Chiunque abbia un cuore ha ammirato Francesco camminare solo, in quella piazza…

Il fatto è che siamo contingenti, canne al vento, tutto qui: restare accanto a questa “nuda veritas”, è davvero entrare nel mistero e nella meraviglia della vita: «Devo rendermi conto – scrive ancora Pannikar – che sono una parte di questa realtà e che non spetta a me controllarla. Scoprire il senso della vita nella gioia, nella sofferenza, nelle passioni; invece di lamentare la difficoltà del vivere, trovare questo senso in ogni istante».

Caro lettore, adorata lettrice, ti lascio al tuo caffè, ma con madre Teresa: «Le cicatrici sono il segno che è stata dura. Il sorriso è il segno che ce l’hai fatta».

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FonteImmagine di copertina: designed by Eich
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

2 COMMENTI

  1. “… Seduti, in silenzio, in attesa. In contemplazione.
    Di cosa? Del mistero della vita, ovvio, e della morte: della loro inspiegabilità che solo il tempo sa e può dispiegare. Restare accanto al vuoto, per essere dentro. «In perfetto silenzio e solitudine», come scrive Kafka, come potremmo fare in questi giorni di dolore e oscurità,…
    Wittgenstein annotava: «Pregare è pensare al senso della vita». Prima di lui Sant’Agostino consigliava: «Ascolta l’altra parte».
    … E così l’accantitudine si svuota per accogliere. Coltiva i più teneri germi di speranza. È il contrario dell’accanimento. È diabolico l’accanimento, è propria degli angeli l’accantitudine. Che non fugge, non insegue. Resta accanto.
    L’accantitudine fa rima con stupore e gratitudine. Invita a danzare la vita. Partecipa di chi vive. Ma anche di chi muore. …”

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