«Non c’è, nelle voci, cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra»

(Walter Benjamin)

Oggi cerco di ragionare sulla parola responsabilità. Da dove nasce è bene ricordarlo: il verbo latino respondeo non vuol solo dire “rispondo”, nel senso del prestare ascolto a una domanda e darle risposta, ma anche: assicuro, garantisco, prometto, adempio a un compito, soddisfo un’aspettativa, ecc.. Straordinaria ricchezza della lingua-madre, su cui ogni tanto, nei momenti difficili, non fa male tornare col pensiero. Essere responsabili allude dunque alla capacità, da parte dell’homo sapiens, di prestare orecchio, di porre mente a ciò che lo circonda, pronto a cogliere con tempestività domande, messaggi, segnali di pericolo da cui non si può non sentirsi interpellati, e che proprio perciò ci sollecitano ad agire in modo conseguente. Mi sembra utile applicare questa nozione al momento drammatico che stiamo vivendo, non come piccola comunità, chiusa in se stessa, priva di contatti, ma come collettività globale. Non a caso, il termine tecnico per nominare la catastrofe che ci ha investito è pandemia: una condizione patologica universale, che tocca potenzialmente tutti, in ogni continente, ad ogni latitudine.

Che sia proprio così è sotto i nostri occhi. Del resto, uno degli elementi che differenziano i virus dei nostri giorni dalle antiche pestilenze è la possibilità, in tempo reale, di sapere subito e ovunque che cosa sta accadendo. Eppure, questa fulminea circolazione delle notizie pare non sia capace di evitare la cecità, l’inerzia, l’impotenza, l’ignavia mescolata al cinismo che da sempre si accompagnano a questi eventi. Basti ripensare alle elezioni comunali in Francia non sospese nel momento in cui il dilagare dell’epidemia era più che palese, o tornare con la mente alla prima reazione dell’inqualificabile Boris Johnson, che non molti giorni fa si dilettava a tranquillizzare gli Inglesi ponendo su un piatto della bilancia l’inevitabile decimazione di un’intera generazione d’anziani e sull’altro una presunta «immunizzazione di gregge», frutto di quel modesto sacrificio. E come non correre col pensiero a Donald Trump, alle sue millantate certezze che, contro il covid19, non servisse neanche una telefonata al medico curante! Certezze che gli si sono sbriciolate tra le mani di lì a poco, quando l’evidenza dei dati statistici sulla rapidità di diffusione della malattia negli Usa gli ha imposto uno di quei capitomboli di cui, in più occasioni, si è rivelato maestro.

Anche da noi, in Italia, la presa di coscienza dell’urgenza e radicalità di risposta all’emergenza ha preso a farsi strada lentamente, fra tentennamenti, smentite, alzate di spalle, persino derisione verso chi cominciava a temere il peggio e avvertiva l’obbligo che si facesse qualcosa di più e di meglio. Questo va detto in rapporto ai singoli cittadini, abituati a pensare che certi mali, certe catastrofi, siano niente più che eventi televisivi: riguardano popoli lontani, meno evoluti, meno fortunati di noi, sono eventi degni di qualche sprazzo d’attenzione e commiserazione, ma non poi così gravi, non così reali, da chiamarci in causa direttamente, da morderci nella carne, la nostra viva carne.

Tuttavia, una lentezza ben più colpevole nel capire e decidere cosa fare, hanno manifestato i responsabili istituzionali di quasi tutte le nazioni, al punto che noi Italiani, inclini a percepirci come fanalino di coda dell’Europa, pur coi ritardi e i limiti dell’intervento anche tra noi, in poche settimane a livello internazionale siamo diventati il modello di come vada affrontata una simile calamità.

La sordità, l’egoismo congenito, l’incapacità di coordinarsi, l’indifferenza verso i più deboli che l’Europa mostra in questo momento, non è certo cosa nuova, ma la dolorosa, tragica conferma del fallimento d’un grandioso progetto politico, il cui crollo, se mai dovesse esserci, sarà una catastrofe nella catastrofe. Non certo un evento da accogliere con quel respiro di sollievo tipico di certe forze politiche sovraniste, oggi presenti in Europa, convinte di potercela fare da sole e illuse che la soluzione ai problemi sia chiudersi a riccio nel recinto del proprio egoismo nazionalista.

C’è poi un altro elemento che è un chiaro segnale di quali siano, in questa fase storica, i  rapporti di forza reali a livello internazionale. Mi riferisco al dato di fatto che, in questo momento, noi Italiani – tra i primi fautori dell’unificazione europea e membri, dall’immediato dopoguerra, d’una coalizione politica atlantica –  in questo frangente ci vediamo soccorsi pressoché esclusivamente da Cina e Russia. Il nostro ben addestrato fiuto politico ci aiuta a capire a volo quali prezzi, in termini di dipendenza economica e non solo, saremo chiamati a pagare nel prossimo futuro in cambio di questo generoso sostegno. Ma alternative non ne esistono: ci sono delle vite umane da salvare, e la vita umana va salvata. Di questo, solo di questo, siamo tutti chiamati a rispondere.

Una parola va poi detta sul nostro paese, che in queste settimane sta dando buona prova di sé, al punto da lasciarci noi per primi stupiti. È un fatto che, nei momenti più drammatici, diamo il meglio di noi stessi. Nessuna retorica, ma il legittimo riconoscimento d’una verità ci porta a vedere con sollievo, e con un po’ di sano orgoglio, quante persone straordinarie in pochi giorni siano uscite dal cono d’ombra delle loro vite anonime e con febbrile generosità stiano compiendo autentici miracoli d’ingegno e d’impegno, mettendo in gioco la propria sopravvivenza. È ovvio a chi mi riferisco: medici, infermieri, tecnici, inservienti ospedalieri e tutti i lavoratori delle filiere indispensabili. A questi concittadini  dobbiamo quel po’ di sicurezza di cui riusciamo ancora a godere, noi che, reclusi nelle nostre comode case, orologio e calendario alla mano, scalpitiamo per rientrare nella vita di sempre.

Certo, una manciata di giorni, o settimane, soli con noi stessi, o gomito a gomito con moglie e figli, non eravamo più abituati a viverla. Questa vicinanza, continua e talora forzata, può costar fatica,  creare o esasperare conflitti già in atto, chiudere vie di fuga. Nei casi estremi, toglie il respiro. Tutto  umano, tutto naturale, però, in quei momenti, per favore, fermiamoci un attimo, e lasciamo che il pensiero corra a chi davvero il respiro l’ha perso, o lo sta perdendo, in questo preciso momento. Magari ci toccherà farlo più volte al giorno, questo esercizio di meditazione, ma serve, è indispensabile.

D’altra parte, a noi che stiamo a casa non è chiesto altro, è il solo modo che abbiamo di condividere una responsabilità. Soprattutto bisognerà ricordarsene quando il «picco» della malattia comincerà gradualmente a scendere:  sarà quello il momento in cui i buoi non dovranno assolutamente scappare dalla stalla!

Un’ultima parola, in termini di responsabilità, credo vada spesa per i nostri governanti, che in ogni caso, in questo momento, devono contare su tutto il nostro sostegno per il compito immane che stanno affrontando. Questo però non fa velo al fatto che sviste e ritardi ci siano stati anche da parte loro. Va detto senza polemica: un numero, forse elevato, di morti sarebbero state evitate, se non altro nell’area tra Bergamo e l’imbocco della Val Seriana, se fosse stata presa in modo più tempestivo la decisione di creare una nuova «zona rossa» almeno attorno ad Alzano Lombardo e a Nembro, i primi focolai dai quali l’epidemia si è poi irradiata al resto del territorio, anche nel bresciano, con una rapidità superiore a qualsiasi previsione. In quei momenti si è temuto, forse legittimamente, di chiudere con estrema urgenza un’area tanto ricca d’industrie e di scambi commerciali. V’è stato un tentennamento, comprensibile finché si vuole, eppure, in certe circostanze, il tempo è ciò che fa la differenza: anche pochi giorni, anche meno di una settimana, si rivelano fatali.

So cosa mi si può rispondere: la virulenza del morbo ci ha colpito alle spalle, traendo in inganno non solo i poveri cittadini ignari, ma i migliori esperti in campo medico ed epidemiologico. Tutto giusto, tutto vero. È innegabile, però, che fin dal 30 gennaio di quest’anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva allertato tutti gli stati membri sulla necessità d’assumere ogni misura atta a prevenire e arginare la grave epidemia che, dalla Cina, stava per investire molti altri paesi. Con tempestività, l’indomani stesso, qui in Italia veniva approvata e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale una Delibera del Consiglio dei Ministri che, in conformità con l’Informativa OMS, si assumeva l’onere di predisporre tutte le iniziative necessarie a fronteggiare l’evento in questione. E che d’evento potenzialmente grave si trattasse è dimostrato dal fatto che veniva indicata quella del 31 luglio come ipotetica data di fine dello stato di allerta indotto dall’epidemia! Dalla fine di gennaio al 23 febbraio – quando il Governo approvò le prime misure restrittive – il margine di tempo non è stato troppo lungo? Come è stato speso? Quali interventi, quali iniziative sono state poste in atto? Quali i rapporti tra governo centrale e regioni? Con che tempi e modalità sono state supportate, nei primi sforzi organizzativi, strutture ospedaliere da tempo carenti di personale e di mezzi a causa d’una più che decennale politica di tagli alla spesa in campo sanitario, di cui non si vuole certo addebitare la colpa agli ultimi arrivati al governo della  nazione?

Questi elencati sono fatti, e i fatti chiedono risposte precise. Certo, lo so, non bisogna seminare panico tra i cittadini ed ogni intervento restrittivo delle libertà, in una società democratica, deve avanzare per gradi. Obiezioni più che legittime. Ma, prima o poi, andrà chiarito se e fino a che punto sia stata fatta un’accurata, capillare ricognizione delle strutture ospedaliere del nostro paese, se non altro per verificare se fossero o meno in possesso delle strumentazioni minime per fronteggiare un evento di simili proporzioni. Come non pensare, oggi, che sarebbero stati provvidenziali, in quella ventina di giorni, massicci acquisti all’estero di mascherine, ventilatori e altro materiale. Le autorità competenti non potevano non sapere quanto ne fossimo sguarniti e dipendessimo dalle importazioni. È bastato il ritardo di qualche settimana e la compravendita si è paralizzata: ciascun paese si è chiuso in se stesso, a tutela, anche legittima, dei propri mali, e ciò che invece non cessa di proliferare è lo sciacallaggio con cui i presidi medici acquistati vengono bloccati alle frontiere, spesso scippati dai paesi di passaggio oppure proposti a noi in una sorta di mercato nero a prezzi da strozzinaggio. Un clima di guerra, senza mezzi termini. Ma in guerra si rendono necessari provvedimenti inaccettabili in epoca di pace: in questo caso, anche quegli eventuali controlli elettronici sugli spostamenti dei singoli cittadini da molti, o da alcuni, paventati e criticati come limitazioni intollerabili della privacy. Una democrazia solida non dovrebbe aver paura, dovrebbe sentirsi dotata degli anticorpi giusti, e dovrebbe sapere che nessun valore, per nobile che sia, è un feticcio, nessuno è degno d’idolatria, neppure la privacy.

La sapienza biblica insegna che c’è un tempo per tutte le cose: oggi è il momento di rimboccarsi le  maniche e fare ciascuno la propria parte. Domani, quando la furia dell’uragano si sarà placata, sui dubbi che alcuni di noi esprimono sarà opportuno riflettere, non per intentare processi retrospettivi, non per attizzare polemiche tra fazioni contrapposte, ma per puro amore di verità.

Questa verità sono i morti che ce la chiedono, sono le loro famiglie: quei figli, quei nipoti che non hanno potuto alleviare l’agonia dei loro cari, con la vicinanza amorosa, e neppure scortarli fino al cimitero. La sfilata dei camion militari stipati di bare deve restare a lungo nei nostri occhi, è bene che sia così: farsi custodi della memoria è la prima delle responsabilità di chi resta.