Torino è una città fiera, tesa verso l’alto come la sua Mole, una città che si crede grande e moderna come le sue fabbriche, ma nel profondo è provinciale, ancora aggrappata ad una routine d’altri tempi, in un misto di indifferenza e dolcezza

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo”.

(La luna e i falò, Cesare Pavese)

Torino è una città fiera, tesa verso l’alto come la sua Mole, una città che si crede grande e moderna come le sue fabbriche, ma nel profondo è provinciale, ancora aggrappata ad una routine d’altri tempi, in un misto di indifferenza e dolcezza. E’ come un protagonista di Salgari, capace di improvvise e impreviste svolte narrative o tragedie indecifrabili. Come quella del 1889, in Piazza Castello, un uomo bacia il suo cavallo, il gendarme che lo arresta scoprirà solo più tardi che quell’insano sobillatore è il filosofo tedesco Nietzsche. Torino è capitale dell’auto, ha visto nascere il grande cinema e consacrato grandi scrittori, Fenoglio e Calvino.

E come Torino, Cesare Pavese, dietro quegli occhialini rotondi, appare schivo e defilato. In realtà, dentro, è inquieto e fiammeggiante nel diventare uno dei protagonisti del romanzo psicologico del Novecento. Ne La bella estate e La luna e i falò, spesso ispirati a fatti autobiografici, Pavese racconta il doloroso passaggio dall’infanzia all’età adulta, con immagini potenti e luminose che rendono comprensibile il suo profondo disagio per la vita. In lui c’è un gusto genuino per l’estremo, la stessa preziosa inquietudine che brucia nella psiche del nostro tempo.

Quella psiche che si modella anche in un’espressione bonaria e in un cappello di paglia. Un intelletto di chi vuole morbosamente aggrapparsi all’idea dell’incallito rivoluzionario, magari un supereroe dell’inchiostro, mascherato dietro diplomatici testi di denuncia, libri che hanno fatto epoca, firme camuffate, nomi d’arte, rivisitazione di un’anagrafica che, ai più, dice poco. Non solo un’abitudine piemontese, ma una consuetudine italiana, un vento di novità che travolge il nordest peninsulare.

È il caso di Hector Schmitz, all’apparenza un semplice bancario nella Trieste colta degli anni Venti, ma che, invece, quando non va a lezioni di inglese dal suo amico James Joyce, torna a casa per lavorare con passione e furore ad un romanzo che farà epoca: La Coscienza di Zeno. Un successo internazionale firmato con uno pseudonimo che rende omaggio alle radici meticce del suo pensiero, Italo Svevo.

Hector, Italo, Svevo, Zeno. Chi è l’autore e chi il protagonista del romanzo? Dove finisce la verità e comincia la finzione? Zeno Cosini è un uomo che non ha mai deciso nulla nella sua vita, non è nemmeno riuscito a smettere di fumare, figuriamoci ad innamorarsi o a fare carriera. Eppure all’improvviso smette di andare dall’analista che, per ripicca, pubblica i suoi diari. Questo è l’incipit di un’opera destinata a cambiare le sensibilità dei lettori, a smuovere i pensieri scossi dell’altro secolo.

L’indole di Svevo è sconfinata, fugge i pedaggi, sdogana pregiudizi di un popolo non ancora unito sotto la bandiera dell’ipocrisia, riempie fogli bianchi come le ruote consumerebbero una strada senza meta, ricercando l’ossessiva armonia letteraria di un viaggio, esplorazioni sentimentali di chi soleva sedersi su una panchina che fiancheggia il museo egizio, aprire la propria valigia e tirar fuori un libro dall’avventuroso titolo, Ulisse.