Sulla violenza a Palermo e molto altro…

Con l’ennesimo episodio di cronaca accaduto a Palermo, che ha visto protagonista una ragazza stuprata da uno stuolo di ragazzi, la riflessione sul ruolo della violenza, fra serie televisive mandate in onda sulla tv generalista e piattaforme, dovrebbe essere al centro dell’attenzione. E, in realtà, questo non avviene, subordinando gli episodi tragici solamente a influenze familiari, sociali, alle dinamiche di gruppo (sicuramente importanti) e non anche massmediatiche, con l’abuso nell’utilizzo dei social, una foresta in crescita costante e disordinata. Se non si sanno usare i social, proprio quelli dei ragazzi o non si conoscono le galassie del dark web, non si comprenderà la presa che certe immagini o filmati hanno.

Certo, non mancano le discussioni su questi episodi nefasti nei salotti televisivi che, diciamolo pure, tentano di lavare la coscienza di canali che trasmettono, durante un anno televisivo, scene che dire fatte di soprusi e sangue significa identificarle solo in parte. Maestri di pensiero senza arte né parte disquisiscono poi, fermandosi solo alla superficie del problema, senza intaccare quei feudi, di quella cosiddetta arte, che è l’esaltazione del criminale nelle serie televisive. L’arte è sempre comunicazione, è sempre espressione di intenzioni e sentimenti, ma talvolta (e ormai è una regola) trascende il proprio significato e non è più semplice simulazione o gioco per immagini, per dirla alla Baudrillard.

Ma vi siete mai resi conto di quanti siano gli episodi nelle serie in cui emergono prepotentemente azioni di violenza gratuita o sesso brutale, in maniera quasi improvvisa? La donna è sempre qui oggetto di un desiderio inesauribile, dannatamente terribile, ma che tiene incollati allo schermo. Sì, magari ci si schifa, ma certe scene orride trovano consumatori accaniti. Io, lo dico subito, non reggo, non vedo certe serie se non perché i miei alunni me ne parlano e devo capire dove va il mondo. Per correggerne magari, nel piccolo, la rotta. Dicevo…Non è arte questa, almeno per chi scrive. Sì, diciamolo pure. Quelli che restano incollati lì, spesso, sono adulti e i loro figli di rimbalzo, con serie facilmente fruibili, nonostante i filtri delle piattaforme, mandate anche in onda in prima serata su reti che dovrebbero fare della propria importanza pubblica un must, un riferimento. E invece…

Ci sono e ci sono stati tentativi di raccontare le aule giudiziarie (Un Giorno in pretura), oppure di trattare casi irrisolti (chi si ricorda di Telefono Giallo?). Ma nel contempo anche fiction, docu-fiction, opere dove il brutale è normale. Mi direte che sono tantissimi anni che la tv o il cinema propongono la criminalità spettacolarizzata. Si pensi alla Piovra (1984-2001), al Capo dei Capi (2007), a Suburra (2017-2020), a Gomorra (2014-2021), a Mare Fuori (dal 2020) solo per citarne alcuni classici delle serie. Ma ormai non serve contare. La maggioranza delle puntate sono non su uomini come i Falcone e i Borsellino ma su altri emblemi, completamente avulsi dalla lotta al male. Attori che nelle vite poi sono tutt’altro (anche se emergono casi che vanno in altra direzione) ma che prestano la propria professionalità a creare fiction che divengono dura realtà, come nel caso di Palermo.

Sulle piattaforme, da quelle della tv di Stato a quelle private, emergono tanti titoli ora fantasy e di fantascienza, ora dallo sfondo psicologico fino agli apparentemente divertenti, con scene crude, continua ansia indotta nello spettatore e desiderio di male, quasi inconscio. Le serie, pure quelle che vogliono solamente dare una visione storica, sono spesso vittime di quegli stereotipi che ancora oggi mostrano gli atteggiamenti mafiosi o criminali come un adesivo kitsch, di pessimo gusto insomma, da appiccicare a ogni piè sospinto. Non siamo più ai tempi di un racconto alla Bisiach o alla Rosi, sulla mafia raccontata a Corleone e attorno alla figura di Giuliano degli anni Sessanta, ma abbiamo un tempo in cui la domanda etica si scontra con l’affare, col denaro da guadagnare. E di anno in anno le serie aumentano la dose di sangue, sparatorie, accoltellamenti, stupri e omicidi. Siamo talmente assuefatti da non percepire più il dolore delle vittime di uno stupro. Sì, leggiamo, ci arrabbiamo, vorremmo reagire, ma poi torniamo alla normalità. Ma non sentiamo nella carne quell’attacco alla persona che una vittima prova. Abbiamo messo in un cassetto e dimenticato, anche nella pratica didattica, l’intelligenza emotiva. Inutile e noioso esercizio, quando nasce lì l’educarsi all’altro. Quasi che la realtà quotidiana non ci basti già consumiamo tragedie, con i telegiornali sempre pronti a raccontare nei minimi dettagli le efferatezze commesse in ogni dove. Un dramma aumentato post pandemia, quando le serie sono state bevute come un cocktail per abbattere la noia di giorni chiusi in casa.

Questo arriva come un pugno allo stomaco se il procuratore a Catanzaro, il dott. Gratteri ha affermato recentemente di come gli fosse stato chiesto insieme all’amico Nicaso “di scrivere una sceneggiatura ma non abbiamo accettato di raccontare solo la violenza. Quello che ho visto spesso è stato questo, solo questo senza un insegnante, un carabiniere, un prete, insomma un’alternativa a quella violenza. Questa non è arte[1]. Ha ragione Gratteri, le serie tv hanno preso il posto del nostro educare. E chi meglio di chi agisce nel sociale (uno sportello di ascolto per tutti nato a Catanzaro sotto il suo impulso) può capire i soverchianti effetti di certa cinematografia o televisione?

Immaginate un povero educatore o insegnante che ogni giorno tenti di intrattenere in aula, in giochi, in oratorio, nelle zone periferiche e abbandonate delle nostre città in specie ma non solo, i bambini che dai 6-7 anni già vivono una propria marginalità oppure adolescenti, di ogni fascia sociale, che emulano, riconoscendosi nel potente di turno, atteggiamenti spocchiosi, cattivi e magari la ricerca di denaro facile. La spettacolarizzazione del crimine invade, disarticola il valore positivo, valido solo per lo sfigato che rispetta la legge, che lavora onestamente, che magari non può contare sulle auto di lusso e il denaro facile. Bambine che sembrano uscite dalle serie si vestono a Carnevale come le loro antieroine, lotte all’ultimo sangue anche in quartieri centrali delle città fra bande. E tutti a riprendere, tutti ad applaudire con i terribili like.

Il raccontare la mafia, la criminalità non deve essere educare alla mafia come sta invece avvenendo, ma deve essere prescrittivamente lotta agli atteggiamenti, alla mentalità mafiosa. Dobbiamo riconquistare spazi al riconoscere nella persona il bello, al far emergere dal degrado, e questo dovrebbe essere il riferimento per serie dove, a parte rari episodi, non emergono mai personaggi positivi. Se proprio vogliamo dirla tutta, anche certa musica esalta la violenza. La presenza di testi, cantati anche dai nostri ragazzi (e ragazze) in cui vengono esaltati gli stupri, droga in eccesso, in cui una ragazza è oggetto di sfogo del corpo maschile e riconosciuta senza dignità dovrebbe preoccuparci. Ma chi si legge più i testi?

Se certe serie e musica, così come i vari programmi pomeridiani che puntano ormai solo sulla cronaca nera imperversano, come potremmo mai combattere e prevenire crimini odiosi come quelli di Palermo? Penso che alla fine quello stupro ci veda come carnefici, anche noi, perché abbiamo perso di vista il ruolo educante della comunità. Che da essere educativa ormai sta diventando di recupero. Purtroppo per noi.

[1] https://www.lacnews24.it/cronaca/orgoglio-e-pregiudizio-a-vibo-marina-gratteri-ai-giovani-studiate-e-realizzate-i-vostri-sogni-il-merito-e-lo-studio-vincono_175372/


FontePhotocredits: https://www.wallpaperflare.com/body-of-water-with-mountain-in-vicinity-palermo-the-coast-wallpaper-amsde
Articolo precedenteArrivederci
Articolo successivoPiromani o ammalati di sadismo
Antonio Cecere (1980), docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Tito Livio di Martina Franca. Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari nel 2004, con relatore il prof. Francesco Fistetti e una tesi in Storia della filosofia contemporanea su Karol Wojtyla. Appassionato di Bioetica, ha conseguito il Master in Bioetica e Consulenza filosofica a Bari e il Master in Bioetica per le sperimentazioni cliniche e i Comitati etici presso il Politecnico delle Marche oltre a vari perfezionamenti di ambito pedagogico e didattico. Impegnato nella Cisl Scuola, è in Azione Cattolica per cui attualmente coordina il Mlac di Taranto come incaricato. Socio Uciim, insegna filosofia anche agli adulti presso l’Università popolare Agorà di Martina Franca. Fra le sue passioni lo studio della storia, il calcio e la musica rock. In passato, oltre che clown terapeuta presso l'asssociazione Mister Sorriso di Taranto, è stato anche conduttore di programmi radiofonici. Presso il Liceo Tito Livio, da qualche anno, coordina il Progetto Percorsi di Bioetica per avvicinare, attraverso modalità didattiche innovative e con la collaborazione di esperti esterni, gli allievi alla cittadinanza bioetica. Ideatore di vari caffè filosofici nella provincia di Taranto e in Valle d'Itria.

1 COMMENTO

  1. Bisognerebbe ricreare il concetto di famiglia e tornare alla scuola elementare di 60 anni fa. I valori primari del rispetto e convivenza sociale non esistono più. L’educazione familiare non esiste più. Il sistema della comunicazione web ha distrutto tutto. La colpe sono da attribuirsi all’uso indiscriminato dello srumento web nel bene e nel male. Servirebbe un esercito di “gente di buona volontà”, per aiutare la crescita dei nostri ragazzi. Ma non si vede nulla all’orizzonte.

Comments are closed.