Storia di un vecchietto, disabile, stracolmo di protesi, che, puntando il nefando ditino, mette in pericolo l’incolumità di un aitante dirigente

Barletta. Poliambulatorio Sant’Antonio. Scene di ordinaria amministrazione. Arrivi con la bicicletta. Manca la rastrelliera, nonostante le ripetute sollecitazioni da te rivolte all’Amministrazione comunale. Sistematicamente insolvente, eppure, il suo titolare alle elezioni era stato cooptato politicamente ed eletto per aver calcato i saloni di Montecitorio e del Quirinale.

Gentilmente offre la sua disponibilità al parcheggio del tuo veicolo, un palo segnaletico, inondato in prima mattina da un caldo e gorgogliante liquido, corposamente giallognolo, che si ramifica in rivoletti fino a formare una cascatella all’altezza del cordolo calcareo. Lo ringrazi. Risponde con un fremito, esprimendo il suo compiacimento per il ruolo di supplenza, che gli tocca svolgere. Un signore, con un casco motociclistico in testa, si gira verso di voi, ascolta il dialogo e sorride.

Sali a fatica le scale del primo piano. Sgomento.  Il pianerottolo è già gremito fino all’inverosimile. Sono appena le 7 e 50 del 23 maggio. Ti procuri il numero, per il disbrigo della tua pratica, cerchi un posto a sedere… Tutti occupati, i metallici sedili antidiluviani. La tua disabilità troverà conforto nel sostegno dello spigolo di un tavolo, dove siede placido, un addetto, (per fare che?) privo del cartellino di identificazione della Asl.

Ti guardi intorno. Difronte a te, in alto, un display segnala con una serie infinita di puntini rossi il numero zero. Immobile ed indifferente, aspetta ordini superiori, allo scoccare delle otto e trenta. Chissà, poi, quando si deciderà a snocciolare il tuo “43”.

Alle tue spalle fa bella mostra di sé un calendario della Farmacia “Cannone”. In una struttura pubblica! Viva le lenzuolate di liberalizzazione. Commistione tra pubblico e privato, la nuova frontiera dell’economia del liberismo selvaggio. Saranno certamente gongolanti tutti gli altri farmacisti di Barletta. Chiederai delucidazioni al tuo amico Beppe, in camice bianco nella sua avita farmacia.

Alla sua sinistra, abbarbicata al muro, una bacheca, cioè un compensato dell’anteguerra che subisce la concorrenza sleale di tante fogli, cani sciolti senza regole, che depositano deiezioni dove capita.  Penduli, accartocciati, grondanti avvisi e disposizioni.

Ne adocchi qualcuno, la tua remota deformazione professionale rinuncia a soffermarsi sulla qualità della lingua adoperata. Approssimativa, sconnessa, raffazzonata. Sembra di leggere le produzioni di bambini di scuola elementare, –  Che dici? Sei proprio in vena di generosità oggi! – della scuola materna, che fanno bella mostra di sé, svolazzanti, alle pareti di un’aula scolastica.

Dal soffitto, svogliatamente, girano le pale sonnacchiose di un ventilatore. Amareggiato. Vorrebbe, per spirito di solidarietà, fornire refrigerio ai numerosi ospiti, donne e uomini dai capelli radi, canuti, muniti di protesi acustiche, spessi occhiali da vista, cinti erniari, cateteri, dentiere, scarpe ortopediche, bastoni a tre gambe e pannoloni, assiepati sotto di lui, imploranti con le mani arse dal sole, accartocciate dalle artrosi e dalle fatiche.  Proprio non può, i suoi anni denunciano acciacchi e reumatismi, il colore è alquanto cianotico e forse è affetto da qualche problema cardiaco al motore.

Entrano spasmodicamente in azione i pori della pelle, che vomitano cascate di sudore. Ah! c’è anche una donna incinta che spinge un carrozzino occupato da un biondo bambino addormentato ed anche donne dai seni prosperi ed i fianchi voluminosi. Mamme di famiglia! Che non hanno proprio niente da fare nelle loro abitazioni.

L’aria condizionata non è per la plebaglia, che staziona parassitaria, in attesa della prestazioni sanitarie elargite generosamente dallo Stato. È riservata ai pezzi grossi della burocrazia, che lavora fino allo sfinimento.  Come non crederle? Visti i volti soddisfacenti e grati degli utenti!

Tu, comunque, non sei assillato da problematiche respiratorie. Chissà come si sentirà il tuo collega di attesa, un anziano, un po’ più piccolo di te, il cui viso è agghindato da due civettuole cannule che esplorano, curiose, il suo naso.

Grazie alla provvidenza, poi, che non manca mai nei luoghi di sofferenza, soggiorni su un pianerottolo, diramantesi in corridoi, dove arrivano spifferi di vento dalle scale. Per giunta, sembra che l’ascensore sia stato installato dalla Direzione dell’ASL BT per portar via aria fetida al piano terra e ritornare, esultante, con aria proveniente, dalla strada inquinata, ma fresca.

Alla spicciolata arriva altra gente, molti, però, fanno capolino, scuotono il capo e riprendono, borbottando, la via delle scale. Come facesti tu, ieri, sia in mattinata che nel pomeriggio. Alla fine, rassegnato, decidesti che avresti risolto il problema presentandoti, il giorno seguente l’apertura dei battenti. Sembra però che il risultato non sia stato lusinghiero.

La vescica manda un segnale di troppo pieno, proprio come succede al galleggiante del serbatoio del condominio. Comprendi che devi urgentemente raggiungere, il secondo piano, dove ha sede la toilette per i maschietti. Ti schiodi dallo spigolo del tavolo che pian piano si sta intrufolando nella parte più recondita del tuo fondoschiena. Facendo forza sulla ringhiera, raggiungi l’agognato cesso. Sì, un vero e proprio cesso, sia nell’accezione materiale che metaforica.

Provi ad entrare, devi spingere con tutte le tue energie, per accedere. La porta oppone resistenza. Quasi la scardini. Lo stridio ti consapevolizza che da tempi immemorabili il manufatto di legno non conosce la manutenzione del falegname.

Manca la carta igienica.  Se la producessero, le generose case farmaceutiche, ce ne sarebbe a iosa. Rovisti nelle tue tasche, “Ammazza!” ti è andata bene. Fazzolettini di carta. Altrimenti, come avresti dovuto provvedere a detergerti dalla tua immonda roba?

Vorresti lavarti le mani, ma il rubinetto, in violazione alle normative vigenti, dispone solo di manopola. Quando, invece, deve essere concessa l’autorizzazione di agibilità a locali aperti al pubblico, si esige giustamente e legittimamente la presenza di un pedale o una leva. Per motivi di sanità e di igiene.

Di nuovo nella confortevole sala d’attesa, poco più dignitosa e gradevole di una stalla degli allevamenti intensivi. La salubrità dell’aria è peggiorata, i volti sono sudaticci, la calca, faticando ad avanzare, sgomita, ripetendo, inascoltata o accompagnata da sbuffi di fastidio, “permesso… permesso”.

Si apre la porta del paradiso, dove si asserragliano tre impiegate fino alle tredici, angeli che sbrigheranno tutte le pratiche, lontane dagli occhi indiscreti del pubblico, che qualche diritto alla trasparenza lo avrebbe pure. A Foggia, per esempio, tutto si svolge sotto gli occhi dei contribuenti.

Il quadro del display, si sveglia, entra in fibrillazione, appare il numero “uno”. Non credi ai tuoi occhi. Si parte. Di gran carriera, cioè a passi di lumaca. La fortunata, un’anziana con un bastone, entra inondando i suoi polmoni di aria ed esclama “Finalmente!”

Il dispositivo erogatore di numeri è al secco. I nuovi arrivati non sanno a che santo rivolgersi. Nessuno sa dare risposte. Rimani, perciò, annichilito alla vista di tanta inefficienza. Assisti con una certa indifferenza. D’un tratto ti senti strattonato, redarguito, apostrofato, scalciato. È la tua coscienza che ti prende a sberle. “Per tanti anni hai insegnato educazione civica, te lo sei scordato? Non vedi che la gente viene derubata della salute, del tempo, della dignità? A che aspetti a diventare cittadino consapevole ed…attivo. Perché rimani inoperoso davanti a tante umiliazioni?”

Ti svegli dal letargo, chiedi chi è il responsabile della struttura, ti viene indicato un signore che proprio in quel momento esce, indaffaratissimo, dal suo ufficio. Claudicante tenti di raggiungerlo. Non appena ti vede, il gagliardo burocrate ti riporta nel mondo dell’infanzia: “A lei non rispondo, non rompa, non rompa”. Memoria di ferro, nutre della ruggine per te, essendo tu intervenuto in un’altra occasione a tutela degli interessi della collettività, denunciando pubblicamente inadeguatezze e deficienze nel servizio.

Gesti scomposti e suoni che vellicano il tuo udito. In cuor tuo, infatti, ringrazi il pubblico ufficiale, amabile e cordiale personaggio, che ti fa rivivere scene di un passato remotissimo. Riaffiorano, infatti, dai tuoi neuroni sopravvissuti e lente sinapsi, parole del tipo “Sei moneeeello, con te non voglio più giocaaaare, glielo dico alla maaaamma!” Ti si appropinqua, minaccia di chiamare le forze dell’ordine. Ingiunge a te, vecchio, disabile, stracolmo di protesi di allontanare il nefando ditino che sta mettendo in pericolo la sua incolumità di aitante dirigente.

Arriva una pattuglia della Polizia. Prende i tuoi dati anagrafici. Sei indaffarato, hai recuperato un foglio di carta ed una penna. Vicino a te una signora anziana, appena arrivata, che legittimamente esige il suo numero, ti dà una mano. Ricordi il nome, Paparella Lucia. Ricavi una ventina di bigliettini, e la tua estemporanea collaboratrice provvede a scrivere e distribuire i numeri ai nuovi arrivati.

Alle undici e dieci, arriva il tuo turno. All’uscita dal bunker, serrato elettricamente con il chiavistello, vorresti salutare uno per uno tutti gli astanti e chiedere scusa dell’umiliazione inferta a loro che non hanno santi in paradiso da uno Stato che calpesta in tutti i luoghi, innumerevoli volte al giorno, i principi della Costituzione.

Il giorno seguente incroci sulla salinata del poliambulatorio un marito ed una moglie che ti salutano amabilmente.  Chiedi loro chi sono.  “Non ti ricordi, ieri… Sai…”, precisa Vincenzina, una robusta signora dagli incisivi divaricati, “io stavo quasi per svenire. Hai fatto bene, tutti, ieri, ti davamo ragione.” Il consorte, Roberto, annuisce con la testa.

Lo specchio di casa tua, questa volta, ti ha sorriso. Ma fino a quando la gente avrà pazienza?


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Percorso scolastico. Scuola media. Liceo classico. Laurea in storia e filosofia. I primi anni furono difficili perché la mia lingua madre era il dialetto. Poi, pian piano imparai ad avere dimestichezza con l’italiano. Che ho insegnato per quarant’anni. Con passione. Facendo comprendere ai mieli alunni l’importanza del conoscere bene la propria lingua. “Per capire e difendersi”, come diceva don Milani. Attività sociali. Frequenza sociale attiva nella parrocchia. Servizio civile in una bibliotechina di quartiere, in un ospedale psichiatrico, in Germania ed in Africa, nel Burundi, per costruire una scuola. Professione. Ora in pensione, per anni docente di lettere in una scuola media. Tra le mille iniziative mi vengono in mente: Le attività teatrali. L’insegnamento della dizione. La realizzazione di giardini nell’ambito della scuola. Murales tendine dipinte e piante ornamentali in classe. L’applicazione di targhette esplicative a tutti gli alberi dei giardini pubblici della stazione di Barletta. Escursioni nel territorio, un giorno alla settimana. Produzione di compostaggio, con rifiuti organici portati dagli alunni. Uso massivo delle mappe concettuali. Valutazione dei docenti della classe da parte di alunni e genitori. Denuncia alla procura della repubblica per due presidi, inclini ad una gestione privatistica della scuola. Passioni: fotografia, pesca subacquea, nuotate chilometriche, trekking, zappettare, cogliere fichi e distribuirli agli amici, tinteggiare, armeggiare con la cazzuola, giocherellare con i cavi elettrici, coltivare le amicizie, dilettarmi con la penna, partecipare alle iniziative del Movimento 5 stelle. Coniugato. Mia moglie, Angela, mi attribuisce mille difetti. Forse ha ragione. Aspiro ad una vita sinceramente più etica.