Colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone, mentre giocano in un campo di segale”. Da questo verso di una canzone di Burns trasse, probabilmente, ispirazione J.D. Salinger quando, nel 1951, scrisse “Il Giovane Holden”, romanzo dalla copertina monocromatica per lasciare libera interpretazione al lettore. Ma se quel lettore è segnato all’anagrafe con il nome di Mark David Chapman, bè, è ovvio che le intenzioni originarie del libro vengano totalmente rovesciate dall’insensata follia dell’ostentarsi, del mostrarsi ad ogni costo. Non importa come e per quale ragione, purché si appaia.

Influenzato dagli scritti di Salinger, Chapman dichiarò di essere stato fortemente attratto dal modello antisociale rappresentato dal protagonista dell’opera, Holden Caulfield, e, col tempo, si convinse che persino il suo mito John Lennon avesse tradito gli ideali della generazione ribelle, sentendosi inspiegabilmente investito della missione di punirlo. Così, l’8 dicembre del 1980, Chapman si apposta all’entrata del palazzo Dakota, a Central Park, e, dopo essersi fatto autografare una copia del disco “Double Fantasy” dall’ex Beatles, gli spara cinque colpi di pistola che uccidono uno dei simboli più liberali di tutta l’umanità.

Ad assistere alla scena c’era il fotografo Paul Goresh che, qualche anno prima, aveva lavorato ad una nuova forma di arte, l’autentica provocazione dell’immagine “consumata” dappertutto, l’esplosione di un marchio visibile sia sugli scaffali di un supermercato di periferia che sulle bacheche dei più importanti musei del mondo. Era la Pop Art. Era il genio indiscusso di Andy Warhol.

In futuro, tutti avranno 15 minuti di celebrità” aveva detto Warhol prevedendo, forse, quello che gli sarebbe capitato il 3 giugno 1968. Una femminista, tale Valerie Solanas, intollerante alle origini ruteno-slovacche dell’artista, sparò a Warhol e al suo compagno di allora, Mario Amaya.

Illeso, Andy Warhol porterà dentro di sé laceranti ferite che segneranno per sempre la sua visione delle cose. La vita non poteva assolutamente essere uno spot, i riflettori dovevano essere accesi ad intermittenza.

C’è un solo tipo di successo, quello di fare della propria vita ciò che si desidera; e quando la volontà è essere dimenticati, non ci resta che qualche fotogramma cinematografico per ricordare, con “Malizia”, l’orgoglio italiano di avere avuto con noi la donna più bella dell’universo.

Ciao, Laura!