Novella tratta dalla raccolta inedita “Con gli occhi del senno” di Salvatore Memeo

Non sempre le stagioni rispecchiano i parametri meteorologici ai quali l’uomo si è da qualche tempo abituato: l’inverno freddo, l’estate calda, la primavera pazzerella e l’autunno con la tristezza che esso infonde, sia per le cadute delle foglie e sia per il grigiore delle nebbie.

L’estate, in Puglia, è una stagione secca, arida per lo più, tanto che qualche ditta che produce “borotalco” potrebbe trasferirsi da queste parti per ricavarne facilmente e senza tanti investimenti, se solo lo volesse.

Le sorprese non mancano mai, nemmeno quando uno si è messo in tasca un fazzoletto di troppo e si accorge, al momento di uno starnuto, che gli è sparito insieme al portafogli.

Un anno mentre si apprestava la vendemmia dell’uva da tavola (da queste parti s’incomincia a metà luglio con alcune varietà), il tempo, si era messo a fare capricci preoccupando più di un coltivatore.

La trattativa tra commerciante e produttore avveniva prima, quando l’uva non era ancora pronta per essere vendemmiata.

I contratti stipulati potevano essere di varie specie: a taglio zero oppure a peso.

Quello a taglio zero significava che il compratore si prendeva tutta la partita a blocco, pagando una somma ics e accollandosi tutte le spese di gestione per il taglio: lo scarto che rimaneva era pure roba sua.

Era il produttore, invece, che doveva sobbarcarsi le spese del taglio quando vendeva il prodotto a peso e non solo, egli era tenuto a selezionare quello migliore.

Il restante: i grappoli acerbi o toccati da malattie, egli doveva tagliarseli e venderseli per proprio conto, magari come uva da vino.

C’è sempre stata la corsa ad accaparrarsi il prodotto da parte del compratore, e quella di vendere, da parte del produttore, ancora oggi.

Si fa in modo che l’intesa sul prezzo si raggiunga a “metà strada” e che sia soddisfacente sia per l’uno sia per l’altro.

Solo nei casi in cui subentrano altri fattori come quello della scarsa richiesta del prodotto, oppure la qualità della merce non rispondente al prezzo richiesto, eh, solo allora si segna il passo e non si stipulano contratti.

Cesare Buonaiuti, a quei tempi in cui operava, era un commerciante attivo nel settore, anche perché era conosciuto: sia dai produttori della zona sia da altrettanti posteggianti di verzieri, principalmente nelle città dell’Italia settentrionale.

Era conosciuto per la sua correttezza, poiché forniva sempre prodotti di prima qualità e rispondente al prezzo richiesto.

Ci fu un anno che, durante la stagione dell’uva da tavola, il cielo si ruppe e diede inizio con le piogge. Non vi era giorno che non lo facesse: se non pioveva il mattino, lo faceva durante il giorno oppure di notte, ma pioveva, eccome te la mandava!

Quell’anno, lui non si era impegnato a comprare uva sui ceppi.

Aveva avuto sentore della stagione che si andava preparando e, pur avendo avuto molta richiesta, da parte dei posteggiatori di vari verzieri, non aveva preso impegni di sorta.

Per accontentare i suoi vecchi clienti egli provvedeva, di tanto in tanto, a stipulare qualche piccolo contratto con i contadini. Cesare comprava solo a peso: non voleva impelagarsi nel comprare partite intere che poi lui avrebbe avuto problemi di vendita. L’uva, senza le buone giornate di sole, non maturava.

Una sera di fine luglio un contadino di Barletta si presentò da Buonaiuti: era stato mandato da un loro comune conoscente.

Il contadino aveva dei vigneti nella zona tra San Ferdinando e Cerignola e voleva vendere il suo prodotto.

Dopo che i due parlarono, si misero d’accordo, per l’indomani mattina, di andare insieme in campagna allo scopo di controllare l’uva, stabilire il prezzo e, casomai, il giorno della raccolta.

Il mattino dopo, i due s’incontrarono e si diressero insieme in campagna, dove il commerciante camminò in lungo e in largo l’ettaro del vigneto e si rese conto del prodotto.

Il vigneto era fatto a cortina oppure, come dicevano da queste parti, a tendone.

Alla fine, arrivato sul tratturo, con le scarpe infangate per la pioggia che era caduta la notte, si mise a pulirle con un ciuffo d’erba bagnata, dopo averla strappata dal terreno con disinvoltura.

A causa delle piogge, tra l’uva maturata ce n’era tanta che era ancora acerba.

Il contadino aspettava un parere dal commerciante, ma questi non si decideva a parlare.

Era intento a pulirsi le scarpe che avevano perso la propria lucentezza e aveva le labbra serrate come se avesse mangiato mezzo chilo di limoni siciliani con tutta la buccia.

L’altro pensava fosse tutto a causa del danno che il commerciante aveva subito alle calzature. Gli guardò le scarpe e disse: -Mi dispiace perché ti sei conciato in quel modo. Avremmo fatto meglio aspettare oggi pomeriggio, quando il terreno drenava un po’, prima d’entrarci.

Sempre con le labbra serrate lui tentennò il capo. Lo fece alla maniera di un batacchio di campana. Una campana messa in silenzio perché ovattata affinché non produca alcun suono o rumore, durante la settimana della Passione di Pasqua.  Si eresse sui suoi centottanta centimetri e si volse verso il barlettano dicendo: -Le mie scarpe non sono ancora da buttare-, lasciò la frase sospesa, attese un attimo, fece un giro su se stesso e, serio in viso, riprese, -… è della tua uva che ti devi preoccupare e non delle mie scarpe.

Il barlettano lo interruppe e chiese: – Che ha la mia uva?

Cesare inspirò profondamente, proprio come avrebbe fatto un suonatore di cornamusa per riempire l’otre d’aria, prima che avesse dato corpo alle sue lamentevoli note.

Lui, d’aria, ne aveva aspirata assai, ma l’era servita solo per fargli emettere una sonora sbuffata.

Con quella avrebbe alimentato la forgia di un maniscalco per una giornata intera, ma poi disse: -Uva? Chiamala uva, quella! A me sembra acido citrico! Il contadino non capiva.

Con gli occhi stralunati chiese: -Acido citrico?  Mai sentito dire! La mia uva da tavola è una varietà dal nome Cardinale. -E sì, ci vuole ben altro che un cardinale, per trasformare questa partita di limoni in uva da tavola-, rispose Buonaiuti mentre proseguì: -Qui c’è bisogno di un miracolo. Occorre un vero santone: ne conosci qualcuno tu, disposto ad aiutarti? -Dimmi: di cosa stai parlando? -, chiese, balbettando, il contadino.

Aveva una voce incredula e la faccia diffidente, ma certamente fingeva perché non solo aveva capito la situazione, ma sapeva pure che, la sua, non era uva di buona qualità, peraltro da proporre per la vendita. Con tono diverso, riprese: -Possiamo tagliare a peso, selezionando quella che più ti piace e il restante…beh, vuol dire che resterà sui ceppi fino alla maturazione. Lo disse senza convinzione, però, poiché lui sapeva bene che in quella stagione piovosa non sarebbero maturati nemmeno gli interessi sui soldi che aveva depositato in banca. Sicuramente li avrebbe prelevati molto prima della data pattuita e che avrebbe perso il diritto agli interessi.

Il commerciante accettò la condizione e affermò che lui avrebbe ritirato solo l’uva di qualità e che avrebbe scartato quella non maturata: non voleva screditarsi con i posteggianti dei verzieri. I due stabilirono di cominciare il taglio dell’uva cinque giorni dopo. Sarebbe bastato qualche giorno per tagliarne la migliore, con gli operai che il contadino avrebbe ingaggiato per il taglio.

La mattina del quinto giorno stabilito, il commerciante si presentò in campagna con un piccolo camion e tre operai imballatori: quelli che dovevano completare le cassette d’uva selezionata per il mercato del nord dell’Italia.

Era ancora buio quando arrivarono in campagna e notarono sul tratturo un falò, intorno al quale si scaldavano sei persone: due donne, un signore anziano, due bambini e il contadino stesso.

Più distante c’erano un carretto e un mulo impastoiato.

Cesare scese dal camion, salutò e si avvicinò al barlettano per chiedergli dov’erano gli operai specializzati che dovevano tagliare l’uva.

Questi, cadde dalle nuvole e gli rispose con un’altra domanda: -E queste persone? Sono villeggianti forse? Lo disse facendo cenno con la mano verso quel gruppo infreddolito che stanziava intorno al falò dal quale si levavano alte le fiamme, dopo che il vecchio ci aveva buttato sopra una fascina di frasche secche d’ulivo.

Quella vampata aveva illuminato i volti dei presenti, togliendo ogni dubbio al commerciante sul come doveva trascorrere quella giornata.

Non appena incominciò ad albeggiare e il fuoco di frasche s’inceneriva, i membri, la famiglia del contadino (poiché di tale si trattava) presero le casse e s’inoltrarono sotto il tendone per iniziare il taglio dell’uva.

Nel frattempo era arrivato un altro signore a bordo di un’ape a tre ruote: era quello che doveva trasportare le casse dell’uva tagliata fin sul tratturo, dove aspettava Buonaiuti e i suoi operai, per imballarla.

Si erano posti tra il mulo e un pozzo a cielo aperto: era abbastanza profondo poiché stentatamente si vedeva lo specchio d’acqua sul fondo, specialmente quando il sole era ancora basso all’orizzonte.

Sulla bocca del pozzo vi erano poste delle assi di legno: fungevano da chiusura, anche se il rimedio non dava sicurezza.

D’altra parte, si usava agire in quel modo. Solo così, chiunque fosse capitato da quelle parti, poteva attingere acqua da bere, per sé e per il proprio animale.

Non avrebbe avuto problemi d’approvvigionamento: fanno tuttora cosi anche gli arabi con i loro pozzi nel deserto, per le carovane che transitano, anche se loro dovrebbero usare lo stesso sistema con il greggio e non solo con l’acqua, visto i prezzi che corrono.

Aspettando la prima uva, i quattro si erano messi a chiacchierare.

Cesare si raccomandava con i suoi operai per la selezione: gli diceva di riempire le cassette solo con l’uva matura e scartare l’altra, perché lui non voleva rogne con quelli dei verzieri.

Si sentì in lontananza il rumore dell’ape che si avvicinava con il primo carico: si era incominciato dall’altra parte a tagliare. Avevano preso i filari in modo parallelo al tratturo: durante la giornata, non ci sarebbe stato alcun contatto fra le due squadre, fatta eccezione del giovane che andava avanti e indietro, facendo spola e trasportando l’uva tagliata.

Il primo carico che arrivò, in linea di massima, andava bene: solo qualche grappolo fu messo da parte.

Intanto che aspettavano l’altro carico, uno di loro prese un grappolo di scarto, si avvicinò al mulo e glielo mise sotto il muso.  Questo, prima lo annusò e poi, con un movimento del labbro superiore lo afferrò e lo fece scomparire in bocca, imbavandosela di mosto.

Si notò subito che al mulo, l’uva piaceva, perché guardò compiaciuto l’operaio che gliel’aveva data e questi non perse tempo e provvide subito a dargliene ancora.

Il mulo, non c’è che dire, era un mangiatore d’uva: gli piaceva e ne avrebbe avuto ancora, visto come si stavano mettendo le cose. Il secondo carico arrivò dopo qualche minuto.

Il giovane scaricò le casse piene e si riprese quelle vuote.  Mentre lo faceva, si guardava in giro per vedere se era stata scartata dell’uva, ma non ne vide e si tranquillizzò.

Nel secondo carico l’uva di scarto era tanta e il mulo ce la faceva appena a starci dietro, ma continuava a mangiarla.

Il suo pasto, a differenza del nostro, con seguito caffè, digestivo, dolce e spumante, a lui proseguiva, alla grande, con la frutta.

Il contadino, appena suo figlio arrivò dopo il secondo viaggio, gli chiese: -Hai guardato cosa hanno fatto quei signori con l’uva che hai portato? Ne hanno scartata assai? Il ragazzo gli rispose ammiccando in cenno d’intesa: -Tagliate! Tagliate tutto, che stanno imballando fino all’ultimo acino…fino adesso, non hanno lasciato nulla di scarto.   Chiunque potrebbe immaginare la contentezza di Ruggiero, il contadino barlettano, dopo aver appreso d’essere sulla strada giusta: i suoi timori, i preconcetti sul conto del commerciante, non si giustificavano. Dopo che il figlio gli aveva assicurato che stava andando bene, Ruggiero si mise il cuore in pace, tanto che ordinò agli altri di adoperare la mano più pesante nel taglio, e inserire qualche grappolo meno maturo.  Non l’avesse mai impartito un ordine del genere, poiché il mulo era già sazio e incominciava a fare rutti di una certa maniera e con tale intensità che metteva ilarità ai quattro buontemponi che gli stavano vicino. Con il viaggio seguente, lo scarto si era a dir poco, ingigantito e aveva preso una piega che nemmeno dieci muli affamati sarebbero riusciti a raddrizzare.  Poiché il mulo aveva perso il ritmo e non stava più al passo, a uno di loro gli venne l’idea di buttare lo scarto giù nel pozzo. Così fecero: continuando fino allo scadere della giornata. Nello stomaco dell’equino intanto, l’uva si era messa a fermentare tanto che questi aveva incominciato, insieme ai rutti, pure a emettere aria dal posteriore, trasformatesi poi, in una forte diarrea. Come se nulla avesse, l’animale sculettava allegro mentre mostrava la sua bianca dentatura: sembrava che ridesse per quello che gli era capitato. Nel momento che Ruggiero arrivò sul posto e contò la pigna di cassette piene, si levò di testa la coppola e, preoccupato, si grattò il cranio pelato, poi, rivolgendosi al commerciante gli chiese: -E’ tutta qua l’uva che abbiamo tagliato? Non gli pareva abbastanza e, secondo lui, qualcosa non quadrava. Ruggiero si girava intorno, sicuro che qualche pigna di cassette era stata dimenticata da qualche parte. Il commerciante capì l’antifona di Ruggiero e, scherzosamente, gli rispose: -Macché, questa qui è quella che è rimasta dopo che noi abbiamo fatto il primo viaggio in paese. Poi ridendo, aggiunse: -Sì, è tutta l’uva che ci avete mandato, vi sembra poco? L’altro, grattandosi ancora il capo, con le tre dita rimaste, mentre con l’indice e il pollice reggeva la coppola tenendola per la tesa, emise un grugnito e poi, da tipico barlettano: -Böoh!-, disse, -Mannägghie a cüd chiaveche du demonie! M’è ‘nchiavecate ‘u cervidde jousce. E poi si diresse verso il mulo per bardarlo.

Notò che l’equino gli mostrava i denti e dimenava il sedere, alla stessa maniera di una brasiliana al carnevale di Rio, e rideva pure, quel bastardo figlio d’asino. -Eh, reidi, reidi… cüssalt ‘nchiavecate accome sa spässe, canzonò Ruggiero. Era vicino all’animale, ora, quel tanto da fargli mettere un piede nella pozza di feci che il mulo aveva defecato, imbrattando pure il carretto.

Il barlettano esplose di rabbia: -V’aveöt ‘a sciölt stu chieavech! Ma ce t’ha mangiate? ‘A pürghe, t’ha piegghiate? Poi disse al figlio di riempire un secchio d’acqua dal pozzo per lavarlo.

Il figlio maggiore obbedì. Prese da sopra il carretto un secchio, legato a una lunga corda di canapa e, avvicinatosi al pozzo, incominciò a levare le assi di legno che ne ostruivano la bocca.

Lentamente fece scendere il secchio cigolante fino a che, della corda, gli arrivò in mano un nodo: era il segno di misura della profondità, ma lui non udì nessun tonfo dal basso quando il secchio arrivò a destinazione.

Si rivolse al padre e gli disse: -Papà, il secchio non si riempie, sembra che non ci sia più acqua laggiù, indicando con la mano il fondo del pozzo.  A questo punto il padre s’inviperì e incominciò a imprecare a modo suo.

Pensò che non gli andasse bene nulla quel giorno: l’uva che non rispecchiava la sua attesa, il mulo che se l’aveva fatta addosso e gli rideva in faccia e ora pure il pozzo che si era prosciugato e chissà quant’altro gli aspettava, visto che la giornata era ancora a metà.

Si avvicinò al figlio e gli ordinò di tirare su il secchio dal pozzo. Questo obbedì e, appena ebbe il secchio tra le mani, gli si avvicinò suo padre. Aveva un grosso sasso fra le mani. Lo sistemò sul fondo del recipiente e disse: -Ora, mandalo giù velocemente, senza farlo piangere, non voglio passare qui anche la nottata!

Il ragazzo prese tutto alla lettera e lasciò che il secchio arrivasse giù a gran velocità tanto che lo sfregamento della corda fra le mani gli procurò un’abrasione.

Questa volta, il tonfo si udì, eccome! Il secchio si riempì tanto che il ragazzo non ce la faceva a tirarlo su ed esclamò: -Papà! Come pe…eesa! Il padre, spazientito gli rispose che era per via del sasso che lui aveva messo dentro, ma si avvicinò e gli diede una mano a tirare su il secchio.

E’ inutile raccontare quel che successe quando il secchio pieno d’uva acerba uscì fuori dal pozzo.

Nemmeno i rispettivi avvocati vollero portare avanti la causa per risolvere una storia così delirante e, allo stesso tempo, comica e singolare.

Le rispettive parti si accordarono senza farsi del male, anzi ci risero sopra insieme.

Solo che la questione del mulo restò problema di Ruggiero Battanzio, e solo la sua.

Il quadrupede aveva preso l’abitudine di mangiare frutta ed era diventato un problema tenerlo a bada. Lui la pretendeva anche fuori stagione, quando Ruggiero non se lo poteva permettere.


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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.