«L’animo mio, per disdegnoso gusto,

credendo col morir fuggir disdegno,

ingiusto fece me contra me giusto»

(Inferno, XIII, vv.70-72)

Il centauro Nesso lascia Dante e Virgilio sulla soglia del secondo girone del settimo cerchio, in una foresta ove sono puniti i suicidi, che usarono violenza contro se stessi. L’ambiente è fosco, tenebroso, ricorda quello della selva oscura del primo canto e Dante lo paragona ai luoghi selvaggi e impenetrabili della Maremma toscana. Sugli alberi fanno il loro nido le Arpie, esseri terrificanti con il collo e il volto di donna, il corpo di uccelli e le zampe artigliate con cui fanno scempio delle fronde.

Dante è smarrito e Virgilio lo invita a spezzare un rametto da un albero: non appena egli mette in atto il suo consiglio, dal ramo esce un lamento e sangue vermiglio. Dante è disorientato, senza parole. Sarà Virgilio a interrogare la pianta per lui.

Ascoltiamo così la presentazione di Pier della Vigna, il fido consigliere di Federico II, caduto in disgrazia per via della «meretrice», ossia l’invidia dei cortigiani che sobillarono il sovrano contro di lui, sì da farlo accusare di alto tradimento. Fu proprio questo a indurre il leale servitore a togliersi la vita, pensando così di sfuggire alle infamanti accuse. In realtà, tale gesto «ingiusto fece me contra me giusto» (v. 72): col suicidio, Pier è passato per ben due volte dalla parte del torto, perché è parso confermare le accuse contro di lui e perché si è privato del dono della vita terrena, meritando così la sua attuale e perenne pena.

Virgilio insiste e Pier spiega che, una volti giunti all’inferno, ciascuno dei violenti contro se stessi è gettato come un seme nella selva dei suicidi, qui cresce come pianta contorta dei cui rami le voraci Arpie si pascono; nemmeno dopo il giudizio universale i suicidi riprenderanno i propri corpi – non lo merita, chi ha voluto privarsene – i quali resteranno ciascuno appeso alla pianta in cui vive la propria anima.

Pier ha appena cessato di parlare che l’attenzione di Dante e Virgilio è attratta da un forte rumore come quello generato dalla caccia del cinghiale nel bosco: in realtà, la caccia è opera di cagne nere che inseguono le anime di due scialacquatori, Lano da Siena, lesto nel fuggire, e Iacopo da sant’Andrea, che si nasconde dietro un cespuglio e insieme al cespuglio viene sbranato: scopriamo dal suo lamento che in esso è imprigionato un illustre fiorentino, forse un giudice corrotto, impiccatosi in casa sua.

Tinte fosche, dunque, eppure illuminate dalla presenza di un giusto, per l’appunto Pier della Vigna. Egli è all’inferno, certo, eppure il modo con cui viene presentato e la grazia delle sue parole non possono farcelo vedere come un dannato. Dante ricorre al chiasmo per rendere il paradosso della sua situazione; il chiasmo consiste in una costruzione che incrocia a “x” quattro elementi contrapposti, in questo caso: “ingiusto/giusto” e “me contra me”.

Tuttavia, la chiave di volta mi pare essere nel verso precedente: «credendo col morir fuggir disdegno…». È questo il punto: il giusto, anche e proprio quando viene diffamato, non deve fuggire. Il giusto resta. Affronta. Attraversa. Beve la cicuta o finisce in croce, se è il caso e se non c’è altra via. Ma non fugge. Chi fugge, ha già perso. Si danna da solo.

Aleksandr Solgenitsin spiega: «Un petto inerme può resistere anche ai carri armati, se al suo interno batte un cuore puro».

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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...