Il giorno del terremoto in Ecuador, il 16 aprile 2016, in Ecuador c'ero anch'io. Ero in vacanza a Mompiche, un villaggio di pescatori e surfisti, proprio sul Pacifico.

Il giorno del terremoto in Ecuador, il 16 aprile 2016, in Ecuador c’ero anch’io. Ero in vacanza a Mompiche, un villaggio di pescatori e surfisti, proprio sul Pacifico. Quella mattina, mentre facevo colazione con la mia coppa di frutta assortita, ancora non sapevo che sarebbe stato un giorno che non avrei più dimenticato né ci furono avvisaglie in tal senso.

Era il mio sesto giorno lì. Lo avevo passato interamente al mare, un po’ a surfare, un po’ a stare steso sulla sabbia, un po’ a parlare con gli altri venuti come me per le onde. Verso le 5 del pomeriggio ero tornato all’ostello, mi ero fatto una doccia e stavo sul letto a leggere, in attesa della cena. A un certo punto sentii tremare tutto, era evidentemente una scossa di terremoto. Mi alzai, aprii la porta della mia camera al secondo piano, Yanet, la proprietaria, dalla sala sotto mi urlò di stare “tranquilo” che a volte succede. Mi rimisi sul letto. Dopo 5 minuti però, in breve, si creò un’atmosfera mai vissuta prima, a naso mi fece paura: mi si tapparono le orecchie, il tempo di guardarmi intorno e tutto cominciò a sobbalzare fortissimo. “Tranquilo un cazzo” pensai. Risaltai giù dal letto, aprii la porta, le scale sbandavano. Sentivo le gambe pesantissime, avevo le mandibole serrate, iniziai in qualche modo a buttare un passo dietro l’altro, a caso, e riuscii a fare le scale. Una volta fuori, in strada, non so perché, mi scoppiò un dolore alla milza come quando corri troppo e non hai fiato, eppure avevo fatto sì e no cinquanta metri. Mi sarebbe passato parecchio tempo dopo.

Accasciato per il dolore al fianco, mi accorsi che tremavo. Mi guardai intorno e non ero il solo. Era il tramonto, erano tutti in strada. Ci guardavamo in faccia, guardavamo le case, i pali della luce, gli alberi, senza parlare, in lontananza invece si udivano urla e pianti. Io mi sedetti per terra e presi a fare profondi respiri, mentre gli altri iniziarono a chiamarsi e ad abbracciarsi fra loro. Qualcuno piangeva, ma erano la minoranza. Poi d’un tratto sembrò come se tutti avessero avuto lo stesso pensiero: il mare. A guardarlo faceva impressione. Si alzava e abbassava vertiginosamente, cambi di marea che di solito ci mettono dal giorno alla notte, avvenivano a distanza di pochi minuti. Si iniziò a dire che probabilmente ci sarebbe stato uno tsunami, l’idea si impadronì della gente, decisero che il villaggio andava abbandonato, era più sicuro spostarsi in altura. Avete idea del rumore che fa un villaggio che si prepara a partire? Neanch’io ce l’avevo. Sembra quello delle mamme che si preparano a partorire. Tantissime mamme. Gente che si chiama a vicenda, via vai di macchine e motorini, nipoti che aiutano i nonni, mamme che caricano bambini, uomini che provano a recuperare il necessario per la notte da passare fuori. Poi piano piano qualcuno prende una via, agli altri sembra ragionevole e lo seguono: io avevo immaginato chissà che, invece è semplicemente così che si muovono le genti.

A me, il marito di Yanet che era rientrato nell’ostello, mi passò il mio zaino lasciandolo cadere dal balconcino. Poi mi disse di incamminarmi e di seguire gli altri. Intanto era definitivamente notte. Mi misi le scarpe e mi unii al flusso. Avevo davanti agli occhi un intero paese in movimento. Forse a causa della mia mente suggestionabile di turista occidentale, pensai che quel terremoto sarebbe benissimo potuta essere una delle epopee di Macondo, il villaggio raccontato da Garcìa Maquez in Cent’anni di solitudine. Mentre i suoi abitanti, quella notte, erano tutti come il personaggio de “lo zingaro” che “era stato nella morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la solitudine”.

Proseguii il mio cammino posizionato a poca distanza da un gruppetto di giovani che dai tratti mi sembravano europei anch’essi, anche perché avevano le torce e io no. C’era una ragazza fra loro che procedeva scalza, con una bambina in braccio. Era chiaro che la piccola le pesasse, ma era anche chiaro che non l’avrebbe mollata per nessuna ragione. Continuava a dirle che stavano andando a vedere le stelle e presto sarebbe arrivato anche papà. Tutti cercavano notizie: epicentro, magnitudo, rischi, indicazioni per la notte. Il problema era che se le chiedevano fra loro, i cellulari funzionavano male o affatto, e nessuno aveva risposte precise. Non volevamo ammetterlo, ma eravamo sotto shock, sragionavamo.

Non saprei dire quanto camminammo. Qualcuno a un certo punto si fermò, agli altri sembrò ragionevole e fecero lo stesso: è così che si fermano le genti. Ciascuno appoggiò le sue cose su un pezzo di terreno e ci si preparò per la notte. Tende, coperte, sacco a pelo, materassini, tutto ciò che si era riusciti a salvare dal peso dei soffitti crollati fu messo a disposizione. Io, sempre vicino a quelli che sembravano europei, stesi il materassino che usavo per gli addominali. Qualcuno accese il fuoco, altri distribuirono bottiglie d’acqua, si tirò fuori del cibo e ci si invogliava a mangiare a vicenda. Sinceramente però nessuno aveva fame, né tantomeno sonno. La gente aveva voglia di una cosa sola: di raccontarsi il momento della scossa più forte. A me lo chiesero una coppia di francesi, io lo chiesi a loro a mia volta. Mentre ascoltavo la risposta, la ragazza con la bambina in braccio seduta lì vicino si alzò di scatto, poi corse con la piccola verso il buio. Riapparvero in tre poco dopo, c’era anche il marito. Lui, mi accorsi con piacere, era uno dei surfisti che avevo conosciuto la mattina in spiaggia, aveva provato a spiegarmi come fare la verticale sulla tavola. “L’ho riconosciuto dalla camminata” disse lei con gli occhi madidi a tutti noi. Fui sul punto di commuovermi anch’io, l’unica volta.

La notte passò così. I più fortunati si addormentarono, altri continuavano a scrutare il mare, altri presero a fare avanti e dietro dal villaggio, molti restarono attorno ai fuochi accesi, seduti per terra, a bere caffè. Di tanto in tanto ci furono addirittura momenti d’ilarità. Ma la terra tremava ancora. Ogni volta che percepivamo una scossa ci zittivamo tutti, a me personalmente mi si stringeva la gola. Come quando su un albero è pieno di uccelli che cinguettano, tu dai un battito di mani sonoro e quelli si zittiscono per qualche secondo. Così facevamo noi di fronte a nuove scosse.

Alla fine mi appisolai anch’io. Mi risvegliai all’alba, raccolsi le mie cose e con altri tornai al villaggio. La gente era curiosa di capire cosa fosse successo alle proprie case, ai propri negozi, attività. Quasi subito di quella curiosità si sarebbero pentiti perché i danni erano dappertutto ed enormi. Molti decidevano di recuperare le restanti cose che potevano e tornarsene in altura. Io approfittai di un convoglio e poi di due autobus per tornare a Quito. Lì stetti due giorni, il tempo di farmi cambiare il volo di rientro. Sui giornali distribuiti in aereo durante il viaggio poi scoprii che il terremoto con epicentro a Padernales, 50 km da Mompiche, aveva causato 660 morti, 15 dispersi, 4600 feriti, 35.000 sfollati. Una volta atterrato in Italia, invece, scoprii che la notizia di quel sisma era una breve post a fine pagina praticamente su tutti i quotidiani nazionali. In seguito di essa non si parlò più. Io mi credevo chissà che, invece è così che si dimenticano le genti, pensai.

* Questo racconto è verosimile, tuttavia basato su testimonianze dirette.

** Sabato 4 giugno alle 21:00 presso l’Officina San Domenico di Andria, si terrà “Próxima statión experanza“, una serata musicale di raccolta fondi a sostegno dei terremotati dell’Ecuador.

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