Il ruolo delle preposizioni
Tra le diverse urgenze o, meglio, sfide che ci attendono e su cui a volte si sorvola in quanto non ritenute tali, è quello di disinfettare il nostro linguaggio dalle scorie ideologiche entro cui è venuto a sedimentarsi sino ad arrivare a considerarlo come ultimo rifugio della stessa conoscenza per comprendere le logiche del mondo, a dirla con Hans Gadamer e con Richard Rorty; e se si ritiene possibile tale tentativo è dovuto al fatto che si sta prendendo coscienza del fatto che le parole da sole ‘non bastano a farci intendere il vero senso’, come ci ha indicato Goethe, anche se a loro modo sono espressioni e indizi delle diverse ‘rugosità’ del reale o sue ‘asperità’, nel senso di Simone Weil e di Jean Cavaillès, che hanno bisogno oggi più che mai di essere colte dal di dentro e fuori da schemi preordinati portatori di furori ideologici. Ma occorre avere il coraggio di liberarci da quei ‘maestri’ che arrivano a ‘ordinare parole umane’ per scoprire che ‘fra due libri t’appaia un tacito cielo’, come ha ammonito Rilke in una significativa poesia del 1922, pieno di ben altre ragioni e significati irriducibili anche alle più sofisticate impalcature concettuali; vanno, pertanto, individuati e rimossi quegli ostacoli epistemologici che hanno invaso il nostro linguaggio nel limitargli di esercitare appieno il suo ruolo primario, quello di essere comunque un interlocutore nella relazione con l’oggetto e d’atteindre le réel nel senso weiliano. Non è un caso se buona parte della riflessione novecentesca si è confrontata con il ruolo delle parole e del linguaggio in quanto portatori di visioni del mondo il più delle volte nascoste che vanno il più possibile individuate per non rimanerne vincolati; del resto questa è la condizione preliminare per ridare in pieno al pensiero quella funzione creativa di andare oltre il dato, anzi di liberarsi dalla ‘schiavitù dei dati bruti’ per usare un’espressione di Federigo Enriques, per farlo uscire da quella che Edgar Morin chiama sua ‘era desertica’ che spesso ha contraddistinto il Novecento.
Diverse sono le strategie che a tal fine di igienizzazione del linguaggio si possono mettere in atto anche ricorrendo, come ha fatto Gaston Bachelard, sia in opere di carattere epistemologico dedicate alla comprensione delle novità delle scienze del primo Novecento che in quelle incentrate sul mondo poetico (Gaston Bachelard, filosofo delle e tra le 24 ore, 6 agosto 2020), all’uso dei prefissi come meta, non, pan, sur, ex, re; essi sono stati programmaticamente inseriti in concetti tipici del pensiero filosofico-scientifico (meta o pan-chimica lavoisieriana, meccanica non-newtoniana, epistemologia non-cartesiana, sur-oggetto come l’atomo o ex-stanza invece di sostanza, sur-razionalismo) con l’idea di ri-strutturare il nostro apparato concettuale in profondità e di ri-cominciare un nuovo percorso. E primo passo in tal senso è quello di liberare le parole dal peso ideologico delle concettualizzazioni del passato e da quello improprio che spesso viene associato a quelle in uso nelle teorie scientifiche odierne, in virtù del fatto che si manifestano come ipotesi di lavoro tutte da vagliare per non farle diventare dei dogmi come avvertiva profeticamente quasi negli stessi anni Pavel Florenskij, nel darci una vera e propria ‘filosofia del tra’ dove tale preposizione svolge un ruolo orientato a cogliere l’unità dei saperi col fare tesoro delle conoscenze ivi espresse (Una vita per l’unità dello scibile, 30 luglio 2020 e Una filosofia del tra, 8 ottobre 2020); in tal modo si è più in grado di cogliere quelle che Bachelard chiama les enjeux mobiles, insiti nei continui processi di rinnovamento apportati dalle singole scienze e sempre finalizzati alla conoscenza delle profondità del reale e delle sue ‘infinite ragioni’, nel senso indicatoci da Leonardo Da Vinci. Tali prefissi col valore euristico ad essi assegnato scardinano idee plurisecolari, possono aiutare a tracciare nuove vie nell’esplorazione del reale che, pur ‘coperto da un velo impenetrabile’ sino a non vederlo, è pur ritenuto ‘eterno’, a dirla con Ludwig Wittgenstein, che ci spinge a rincorrerlo senza sosta mettendo in atto un continuo ‘travaglio dei concetti’ pur col creare quell’inevitabile ‘cimitero di errori’ tipico del pensiero scientifico, per usare delle espressioni di Federigo Enriques.
Una sana immersione nel pensiero scientifico odierno, irrobustito dalla piena consapevolezza della sua anima storico-veritativa al cui riconoscimento hanno contribuito e continuano a farlo le diverse tradizioni nel campo della filosofia della scienza, ci mette di fronte ad altre responsabilità di ordine epistemico, a loro volta frutto della estrema cogenza dei problemi tipici della nostra era, l’Antropocene, che a dirla con Jürgen Renn necessita di nuove basi per una diversa struttura della stessa conoscenza dove il linguaggio può svolgere un ruolo non di poco conto se si entra nelle stesse sue dinamiche interne; tale esigenza fu già avvertita negli anni ’30 del secolo scorso dal geochimico Valdimir I. Vernadskij col gettare le basi di una nuova ‘storia geologica dell’umanità’ imperniata su uno strutturale pensiero dell’ambiente ri-strutturato e ri-edificato “in modo radicalmente diverso rispetto a ciò che era prima”, come viene indicato in una significativa raccolta di scritti di natura più epistemologica contenuti in Dalla biosfera alla noosfera. Pensieri filosofici di un naturalista (trad. it e introduzione di Silvano Tagliagambe, Milano-Udine, Mimesis 2022). L’Antropocene porta con sé diverse sfide non più eludibili, e data la loro portata planetaria porta con sé vari processi di riflessività da mettere in atto ad ogni livello (Per una visione agapica dell’Antropocene, 3 marzo 2022), a partire dal linguaggio e dalle diverse strutture che ne fanno parte col corredarlo di ulteriori significati che, rispetto anche al recente passato, risentono di bisogni oggettivi sempre più impellenti sino a coinvolgere il nostro stesso destino di uomini.
Ed il linguaggio stesso nelle diverse componenti (filosofica, scientifica, etica, artistica, tecnologica, sociale, economica e religiosa) diventa un veicolo insostituibile nel creare le condizioni di base per sovvertire interi settori da far nascere quelle che sono state chiamate ‘in-discipline scientifiche’ (Come essere collassonauti, 6 aprile 2023); in esse un ruolo primario lo stanno avendo nel loro complesso le diverse scienze del vivente o meglio dei viventi, la cui forza ermeneutica di ascendenza darwiniana continua ad esplicarsi nell’essere dei percorsi in fieri, aperti ad ulteriori orizzonti cognitivi molti dei quali da esplorare e da affrontare come mente ‘anabattista’ a partire dallo stesso linguaggio, come diceva Gaston Bachelard, cioè mettendo da parte molte delle conoscenze acquisite col loro fungere spesso da ‘ostacoli epistemologici’. Le scienze dei viventi con i ‘loro gradi e livelli di complessità’ portano nei loro fondi un ineludibile portato di coscienza ecologica da farci entrare in una nuova fase, la ‘noosfera’, come la chiamavano sia Vernadskij che Pierre Teilhard de Chardin, dove per la prima volta l’uomo stesso sta diventando ‘la più importante forza geologica’ caricandosi così di inedite responsabilità. Si potrebbe dire senza nessuna esagerazione che dopo vari secoli imperniati sulla fisica, o meglio su una visione quantitativa di essa, sta emergendo a partire dalla seconda metà del secolo scorso una visione ‘qualitativa’ delle scienze più in generale con l’investire lo stesso pensiero fisico, come avvertì già Gaston Bachelard nelle ultime pagine de Le rationalisme appliqué del 1949; e questo è frutto di quella che chiamava ‘filosofia dialogata, filosofia dispersa’ grazie al ruolo dei prefissi e delle preposizioni che hanno la capacità di non separare il reale dai concetti che lo rappresentano col ricongiungere il pensiero scientifico, al ‘campo della vita’, come hanno indicato con modalità diverse Simone Weil e Vernadskij, e con l’assegnargli così una implicita e specifica dimensione spirituale, sottolineata in particolar modo da Albert Lautman nei suoi scritti di filosofia delle matematiche negli stessi anni.
In diversi ambiti del pensiero biologico, come nelle neuroscienze, si è arrivati a dei risultati sempre più frutto del ruolo costitutivo, per l’approccio messo in campo, di alcune preposizione come il con; dove ha trovato adeguato spazio col diventare quasi uno ‘a priori dello spirito’ nel senso di Hélène Metzger che guida la ricerca scientifica, ha permesso di arrivare allo strategico concetto di ‘plasticità temporale’, tipica del cervello grazie alla sua capacità di far correlare “contemporaneamente l’organizzazione materiale del pensiero e del vivente”, di essere “in stretta con-nessione con la vita” ri-configurandone le tracce come ha scritto Catherine Malabou in Avvenire e dolore trascendentale (trad. it, Milano-Udine, Mimesis 2019) ed in altri lavori come Ontologie de l’accident. Essai sur la plasticité destructrice e La Chambre du Milieu: de Hegel aux neurosciences del 2009, opere dove si mette in moto un percorso filosofico in stretto dialogo conle neuroscienze e la neurobiologia col recuperare alcune idee hegeliane, come appunto plasticità e negatività. In tal modo, lungi dall’essere un semplice riflesso del reale, essa ‘plasticità neuronale-temporale’ acquista nelle sue opere un preciso significato epistemologico nel far comprendere meglio “la continuità tra il neuronale ed il mentale”; apre le porte ad un “altromondismo biologico”, getta le basi di una vera e propria “storia dell’avvenire” o ”storia della soggettività”, oltre a far comprendere meglio “il carattere trascendentale del pensiero” per avere una struttura logica strettamente correlata colla “sua struttura biologica”.
Da più parti, inoltre, si è arrivati alla ‘metafora del cervello come orchestra’ dotata di una “densità polifonica” come scrive Silvano Tagliagambe in Come in uno specchio. Il cervello e il suo ambiente (Milano-Udine, Mimesis 2020) grazie alla sua “capacità di con-densare nello stesso istante più suoni e più voci”, organizzati in modo tale da far scaturire un “incremento di significati” frutto di “relazioni orizzontali e verticali”; questo tipo di approccio permette di arrivare a concepire un ‘terzo tipo di leggi naturali’, come le chiamava W. Pauli, forme intermediarie tra materia e psiche, suffragate da vari tipi esperimenti, che ci fanno capire che la nostra coscienza è il “risultato di un rapporto dinamico con l’ambiente”, fondamentale per “costruire conoscenze, cioè per apprendere ed evitare ogni rischio di rispecchiamento narcisistico”. In tal modo essa per Tagliagambe si presenta come uno ‘specchio’, una continua spola e “un andirivieni permanente tra la realtà esterna e l’universo interiore” in quanto “aperto al mondo” dove si riflette il nostro stretto rapporto con il reale umano e naturale che ci circonda e con la quale “il nostro cervello dialoga di continuo al punto che lo si può considerare il nostro interlocutore ottimale, il nostro ‘doppio’”, fatto che trova conferma nel modello dissipativo quantistico del cervello.
Ma c’è un altro settore del pensiero biologico che più di altri ci fa prendere coscienza, con una forza veritativa non comune e tipica del pensiero scientifico, del ruolo strategico avuto dal con nella cosiddetta ’officina di Darwin’ nel continuare a dare voce organica a quella che lo scienziato inglese chiamava ‘esuberanza biologica’ grazie al prendere atto del ‘fermento della natura’, la ‘simbiontologia’; tale scienza, grazie ai fondamentali lavori di Lynn Margulis, ci consegna in modo netto il mondo dei viventi come un reseau, come una rete di ‘storie condivise’, in quanto ‘grondante di molteplicità’ e soggetto a continui ‘strazi’, per usare delle espressioni di Pierre Teilhard de Chardin grazie ai suoi studi di biogeologia in Cina e abbeveratosi alla stessa fonte di Siloe che è stato Darwin. Tale ramo della ricerca in microbiologia, nello studiare le co-abitazioni simbiontiche tra organismi viventi ‘compresi noi’, ci mette di fronte a ’ingenti masse di con-viventi’, di ‘convivenze proto-cooperative’; ed una prima presa di coscienza a livello epistemico è quella di arrivare a considerarci ‘con-individui in evoluzione’ come in questi ultimi tempi, in diversi scritti di filosofia della biologia, ha insistito in particolar modo Elena Gagliasso nel sottolineare la necessità di introdurre un nuovo linguaggio, libero dalle catene del passato e più in grado di cogliere ‘una realtà che è sempre e in ogni caso comunanza’, come aveva già individuato in La scienza ed il mondo moderno del 1926 A. N. Whitehead.
Per arricchire il nostro vocabolario ed usarlo anche nella vita di tutti i giorni, diventa necessario pensare, agire colla coscienza che siamo immersi in processi continui di ‘co-implicazione’, di ‘co-appartenenza’, di ‘co-evoluzione’, di ‘co-abitazione, di ‘co-esistenza’, di ‘con-nessione’ che sono per Elena Gagliasso la “base del reale” da cui non si può più prescindere; tali processi, frutto di quella rivoluzione nella profondità del tempo consegnatoci dalla teoria dell’evoluzione, descrivono il nostro essere strutturalmente “tanti in co-abitazione” da esigere il cambiamento dei termini come quello di individuo con tutto il suo portato storico-ideologico a “con-dividuo”, come ha fatto Gaston Bachelard negli anni ’30 per alcuni termini della fisica e della chimica e della stessa filosofia. Se ben metabolizzati ci permettono di essere “lontani dal determinismo” ed immersi in “reti di relazioni vincolate”, spazzano via le miserie degli unilateralismi, i nostri narcisismi sia sociali che epistemici, rafforzano il nostro pensiero critico col mettere da parte i ‘restringimenti ideologici’ a cui sono state sottoposte sia la scienza che la filosofia insieme alla stessa esperienza di fede, come li chiamava Papa Benedetto XVI. Così, un ambito scientifico, a dirla con Morin, non si è limitato a produrre concetti e teorie, ma ha saputo interrogare il visibile e supporvi l’invisibile fino a farlo emergere col consegnarlo alla nostra custodia per coltivarlo in modo appropriato; e nello stesso tempo, per riprendere alcune indicazioni di Teilhard de Chardin, ci fa ‘prendere coscienza di noi stessi insieme alla Terra solo attraverso la crisi di una conversione’, di ‘costruire l’avvenire dell’uomo sulle basi di un credo comune’; su queste basi forniteci da più settori del pensiero biologico, ci si può enracinernel senso di Simone Weil per dare spazio alla vera ‘protagonista del XXI secolo, la fraternità’, promessa mancata della modernità, col diventare ‘il nostro cammino’ in una dimensione planetaria e cosmopolita, come ha scritto recentemente Mauro Ceruti.