Una sfida ad ogni visione riduttiva dello scibile umano

Una delle conquiste  significative del più avvertito pensiero filosofico-scientifico odierno, già annunciata nella prima parte del XX secolo e poi venuta  a maturazione  in questi ultimi decenni chiaramente declinata con diverse modalità come ad esempio nel pensiero complesso, è quella dell’unità dello scibile come strumento imprescindibile per  una visione integrale della realtà; tale esigenza del resto ha una lunga storia e ha accompagnato le ragioni di fondo della più genuina riflessione filosofica sin dalle sue origini nel tentativo di cogliere del reale gli elementi essenziali, dove la scienza matematica ha avuto e continua ad avere un ruolo non secondario per essere stata il primo tentativo organico di liberazione sistematica da quella che il matematico ed epistemologo italiano Federigo Enriques chiamava ‘schiavitù dei dati empirici’, problematica questa ancora oggi al centro di vivaci discussioni e non solo all’interno della filosofia della matematica.

A differenza del passato, la visione d’insieme o meglio una Weltanschauung integrale, come da più parti viene auspicato, non solo si limita ad essere espressione di un bisogno teoretico, ma viene presa come condizione strutturale ed esistenziale dell’uomo sino a vedere nella sua mancanza una ‘malattia mortale’; anche se tale ‘malattia’ è stata diagnosticata da più personalità, una delle più incisive terapie messe in atto per farvi fronte si trova   in particolar modo nelle pagine di quella singolare e nello stesso tempo tragica figura che è stata Pavel Florenskij (1882-1937), un vero e proprio ‘lottatore dello spirito’ per usare un’espressione di Semën Frank nel tentativo di capire meglio alcuni ‘volti dell’anima russa’ nel senso avanzato da Natalino Valentini. L’intera vicenda umana, infatti, di questo teologo, filosofo, ingegnere ed epistemologo russo, era considerata, per diretta conoscenza, da Sergej Bulgakov ‘un’opera d’arte’ per la coerenza tra le idee espresse  e la loro ‘incarnazione’ nella vita vissuta per usare una sua espressione, poi utilizzata metodologicamente da Silvano Tagliagambe nel significativo volume Il cielo incarnato del 2013 proprio per rilevarne l’unità di fondo attraverso l’analisi dello strategico ruolo  assegnato al simbolo in base sia agli studi condotti dal pensatore russo sulla scienza matematica tra Ottocento e Novecento e sia in ambito teologico e iconologico.

Non è dunque un caso se tale poliedrico pensatore, oltre ad essere stato un punto di riferimento di due papi come Giovanni Paolo II prima nella Fides et Ratio e dopo nella recente Laudato sì  di Papa Francesco, è  in questi ultimi anni al centro di vari studi critici soprattutto in Italia da parte  dello stesso Valentini, Lubomir Zak,  Tagliagambe e altri più giovani; questi studi  fra l’altro stanno avendo il merito di far meglio conoscere l’originalità e la profondità del pensiero russo più in generale insieme alla sua specificità, non ritenuto degno di attenzione da parte del solito Benedetto Croce che,  anche se non viene abbastanza sottolineato, aveva altre  e non giustificabili idiosincrasie  non solo verso figure del calibro di Kant, Schopenhauer e Nietzsche, ma anche nei confronti della poesia e dalle arti moderne  da Baudelaire in poi, per non parlare delle diverse scienze giudicate  prive di reale spessore concettuale.

Per combattere adeguatamente tale ‘malattia mortale’ un primo passo necessario da fare, da parte di Florenskij, è quello di ‘ritornare alle cose’ e di vivere tra le cose per estrinsecarne e sentirne la polifonica complessità,  di ‘vederle’ in un’ottica di insieme come in un processo di interazione tra le ragioni della vita, del reale e  quelle del pensiero; tale attitudine è stata persa da certa modernità che, pur tesa a comprenderne le ragioni, è arrivata ad operare delle vere e proprie ‘mutilazioni’ del reale  e alla sua frammentazione col perdere così di fatto la circolarità tra vita e pensiero col creare dualismi dannosi non solo di natura teorica, ma esistenziali. Scriveva profeticamente Florenskij già nel 1915 in Il significato dell’idealismo: “ma noi, uomini del XX secolo, che abbiamo perso la capacità di vedere l’unità e oltre agli alberi non siamo più capaci di vedere un bosco, noi, per comprendere di nuovo questa unità del genere, dobbiamo riscattare con il pensiero l’insufficienza della nostra vita”. Per tutta la sua vita, infatti, anche nelle condizioni più dure del gulag, come emerge dalle commoventi lettere Ai miei figli che possono essere lette anche come un insieme di indicazioni metodologiche per essere il più possibile fedeli alle diverse voci del reale, tutto lo sforzo teoretico è stato sempre indirizzato alla costruzione di una ragione forte e alla costituzione di quella che chiama ‘condizione della razionalità discorsiva’ basata sempre sulla ‘condizione della concretezza’ per aver incorporato dentro di sé le pluriragioni di ogni singolo aspetto della realtà e per questo aperta alle diverse dimensioni dello spirito umano.

Il ‘riscatto’, lo scatto di reni, tocca al ‘pensiero’ che per ritrovare  l’unità, la globalità, il ‘bosco’  o la ‘foresta’, come dirà più tardi quasi con le stesse parole Albert Einstein, deve liberarsi da una visione ristretta, dalla dimensione unilaterale offerte dai singoli alberi  e legate non a caso al ‘come se’, che ci fa vedere il mondo in maniera falsamente lineare e retto da una presunta lex continuitatis, visione che ha dominato e domina ancora in larga parte la cultura moderna. Quasi negli stessi termini che si trovano in L’uomo senza qualità di Robert Musil, così Florenskij si esprime: “la cultura borghese si sta disgregando perché in essa non ‘è’ un tutto ‘sì’ al mondo. Essa è tutta nel ‘come se’, ‘come se fosse’, l’illusionismo è il suo vizio principale”. Se l’uomo non è in grado con le sue forze di cogliere la connessione tra il tutto e le parti, cade nell’illusione di possedere  il reale, come se fosse fatto in funzione delle sue aspirazioni; ma dato che questo reale non è stato rispettato per quello è come ‘tutto’, prima o poi si ‘vendica’ come dirà negli anni ’30 Simone Weil che invitava a sua volta ad ‘abitare le contraddizioni’, a conviverci e non ad avvolgerle nel clima del ‘come se’ che porta all’idolatria giocando sul bisogno dell’uomo di avere a disposizione degli assoluti.

Florenskij  nell’atteggiamento insieme non solo cognitivo del ‘come se’ vede quasi presente la precondizione che porterà a quello che con parole diverse  sarà chiamato  ‘il buio della ragione’ con tutti gli effetti tragici che conosciamo; sembra ammonirci  che il buio della ragione si può superare solo se attraverso la conoscenza l’uomo capisce che  la vita è   un continuo fare esperienze di realtà con nello stesso tempo tramutarle in esperienza di senso nei suoi molteplici versanti da quello scientifico e artistico a quello religioso e spirituale. Però tutto questo sforzo viene meno “se la ragione non partecipa dell’essere”, e così “neanche l’essere partecipa della ragione”, fatto che è una grave perdita per una visione integrale, come viene detto nell’opera più pregnante dal punto di vista teoretico del 1914 La colonna ed il fondamento della verità.

Ma il recupero del tutto, di una visione d’insieme è finalizzata quindi al superamento della ‘malattia mortale del secolo’ idea questa che può essere un modo per interrogarci sulla genesi degli stessi totalitarismi del XX secolo, uno dei quali Florenskij lo ha vissuto tragicamente sulla propria pelle; il suo invito pressante a ‘ritornare alle cose’ e ad essere ‘la parola della realtà’ , che   continuò a mettere in atto nel fare ricerche sia pure in condizioni estreme come  nel gulag, non è un vago realismo o un ingenuo empirismo, ma un esempio concreto di immergersi in un mondo di relazioni con il reale per coglierne i significati più profondi, di ritrovare quei legami vitali che intercorrono tra il ‘tutto’ e le sue parti, dove queste non vengono annullate ma rispettate nelle loro singolarità, le quali ricevono dalla visione del tutto ulteriori significati una volta che hanno dato il loro insostituibile contributo.

Se il dramma e nello stesso tempo la specificità della filosofia e del pensiero più in generale, come dirà lo scrittore colombiano Nicolás Gomez Dávila negli anni ’50-‘60, consistono nel costringere a studiare il tutto attraverso le parti, la filosofia di Florenskij, nel fornirci un itinerario di pensiero molto legato alle ragioni della vita e a quella che  chiama ‘la superficie mobile della sezione del mondo’, ha fatto  di questo ‘dramma’ una ‘verità vivente’ ed ‘in  movimento’ caratterizzata da una “pluralità di descrizioni che trapassano l’una nell’altra”. Sta a noi raccogliere questa difficile eredità che è una sfida ad ogni visione riduttiva dello scibile umano che come avvertiva Hélène Metzger, a sua volta testimone della ragione verso Auschwitz, è l’anticamera degli atteggiamenti violenti che l’umanità produce contro se stessa.


Fontehttps://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/ed/19330227_pavel_florensky.jpg
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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.