Battaglie di speranza per le libertà

La troppo calda estate decivilizzatrice del 2021, in un Afghanistan che ha dovuto arretrare il già precario corso evolutivo delle proprie speranze di primavera, ci deve interrogare, come cittadini e – per chi si sente alla ricerca di un  quid  pluris  – anche come cristiani. Occorre non arrendersi. La talebanocrazia non può essere uno stagno escatologico di una vittoria finale, in quella terra martoriata dall’irrazionalismo degli estremismi.

L’ufficializzazione e la formalizzazione delle violenze, attraverso un eventuale riconoscimento del governo talebano, non possono avvenire all’interno di un panorama internazionale che si professa vocàto a tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone.

Il grido di dolore delle mamme afghane, il terrore negli occhi delle donne, la traumatizzante incertezza esistenziale nei mancati sorrisi dei minori arrivano dritti nelle nostre culle giuridiche occidentali, attraverso le narrative sui media e sui social.

Rappresaglia e terrore, bieco giustizialismo più-che-giacobino e nichilizzazione dei diritti personologici, così, da locali diventano globali.

L’Europa ha il compito di promuovere pace, sviluppo e protezione dei diritti umani, non solo al proprio interno bensì anche fuori dai propri confini a geografie evolutive, transcontinentalmente connesse. Povera di spirito civile diverrà quell’Europa che non saprà capire che solo insieme, transnazionalmente, si può realizzare il sogno concreto, quotidianamente palpabile, di una democrazia di pace e benessere sociale, di pari opportunità e libertà individuali per tutte e tutti. La democrazia liberalcostituzionale non è mai un’acquisizione iperuranica che va bene una volta per tutte.

Ogni democrazia nazionale ha il dovere di conservarsi evolutivamente, da un lato, e di connettersi ai processi ed ai percorsi di democratizzazione esteri, dall’altro lato.

Come il trotzkijsmo bacchettava i nazionalismi a socialismo reale nel Novecento, poiché questi ultimi nutrivano irresponsabilmente il compito d’instaurare mere dittature comuniste nazionali ed illiberali, così una futura, eventuale Internazionale umanitaria, agapica e demolibertaria, dovrebbe bacchettare le miopie del solipsismo nazionaldemocratico dell’oggi.

La democrazia per essere piena ed effettiva, efficace e di lunga durata, necessita anche di una promozione della propria cultura umanista ed umanitaria fuori dai confini ove vige il proprio regime giuridico illuminato. Niente è illuminato, realisticamente, se non diviene illuminante. Una luce non è radiosa se non illumina ciò che c’è intorno. L’autoreferenzialità potrebbe infatti essere ricordata come uno dei mali della nostra post-contemporaneità in divenire.

Al di là di ogni superbia demagogica, la democrazia seria – ossia quella ad ampio respiro plurale, pluralista e personologico – ha maggiori probabilità di perdere i propri sudati pezzi se dismette la propria militanza socio-istituzionale nel mondo. Una democrazia-monade non potrà essere vividamente illuminata se non è anche capace d’illuminare le collettività esistenti fuori dalle proprie culle, nell’unico respiro di umanità universale che ci è dato vivere in questa dimensione.

Oltre ogni deriva dei continenti geopolitici, una ri-pangea demolibertaria potrà concretizzare i nuovi valori sociali, dopo il crollo disideologico delle dottrine ottocentesche e novecentesche. Le interessanti ed arricchenti relatività culturali ci chiamano a vegliare da pluralisti e non da nichilisti: la relatività non relativista ci porti a presidiare i valori di condivisione umanitaria, per la promozione dei diritti delle donne, dei minori, delle minoranze schiacciate nei regimi illiberali.

Come i trotzkijsti (oggi, si salvi chi può!) dicevano no al socialismo in un Paese solo, i democratici devono dire no alla monadizzazione della democrazia. La mancanza di opportune dinamiche di lotta, per un processo multilivello di democrazia transnazionale, aprirebbe la strada alle minacce esterne per la stessa salute democratica interna, aumentando i rischi di fenomeni terroristici e di fungibilità valoriali nella considerazione della libertà delle donne, libertà che invece non deve essere barattata per nulla al mondo. E a chi a queste minacce antidemocratiche ed anti-occidentaliste provenienti dall’esterno propone semplicistiche ricette di nazionalismo e di chiusura, occorre far notare come non si possa fermare il flusso migratorio dell’umanità con il retorico ditino del sovranismo. Chiudersi totalmente vorrebbe dire auto-trincerarsi, auto-ingabbiarsi all’interno del mondo.
Qual è – ci si può chiedere – una delle parti più vive dell’apostolato cristiano del nuovo millennio, in questi primi anni Venti, se non la promozione dei processi di democrazia liberale, sociale, umanista, per tutte e tutti, nel mondo?

Se la democrazia dei diritti umani e delle libertà fondamentali non si può esportare al pari di una merce, a livello istituzionale nonché diplomatico è possibile aprire corridoi umanitari nelle emergenze, e non riconoscere le talebanocrazie come soggetti ufficiali di diritto internazionale. Il dialogo è arma importante per capire razionalmente e gestire le situazioni, ma una cosa è il dialogo, altra cosa è il riconoscimento ufficiale di diritto internazionale di un governo di fatto.

La talebanocrazia è un fatto storico, un fenomeno, complesso, non nuovo ma con nuovi risvolti in questi giorni; essa resta tuttavia un male per la salute democratica globale, e va trattata – stando così le cose – come antitetica rispetto agli auspicabili valori di pace, uguaglianza, libertà, giustizia, umanità.

Le resistenze popolari da parte di donne coraggiosissime in alcune aree afghane fanno ben sperare, tuttavia non dovremmo mai giudicare chi invece decide di scappare. I corridoi umanitari sono pertanto necessari quali strumenti istituzionali di solidarietà, tra sorellanze e fratellanze nella matriapatria ch’è la vita associata in sé, la quale invero non conosce confini di fronte alle più lancinanti emergenze.

Risultano poco rassicuranti, e poco coerenti con il diritto internazionale umanitario, quelle esternazioni sub-populiste che già soffiano sulla pancia emotiva dei disagi interni con vuoti slogan come “prima gli italiani”. Per valorizzare la sicurezza interna degli italiani, a rigore, occorrerebbe agire sulla sicurezza delle esistenze nate in ogni dove; servirebbe nutrire, corroborare, amare i processi costituzionali di democratizzazione socio-liberale.

Bisognerebbe soffiare con rigenerate consapevolezze sul senso di speranza comune, poiché comune è lo spazio universale che in quanto esseri umani ci è dato attraversare, in questa vita d’inevitabili interconnessioni transfrontaliere.

Transfrontaliere come il vento, libere, procedano le esistenze, le passioni, e le concrete lotte per perseguirle. Transfrontaliere procedano le vite, nello spirito di solidarietà e sicurezza comune che deve animare ogni frangente delle civiltà, nel proprio riformando divenire. La nostra pace mediterranea è la pace di ogni altra area, e la pace di ogni altra area è la nostra pace. La pace mediterranea non dovrà solo passare attraverso un processo democratico di respiro transatlantico, ma dovrà anche percorrere inevitabilmente le più ambiziose nonché inedite, ed evolutive, vocazioni eurafroasiatiche.

La pace eurafroasiatica richiede combinazioni gestionali all’insegna della libertà e dell’eguaglianza, richiede socializzazioni produttive unitamente alle libertà individuali di scelta, ed anche modelli di sviluppo comune, attivismi progressivi per la cooperazione e per la parità tra le etnie e tra i generi. La pace si ciba di culture demolibertarie per popoli ed individui, di anticolonialismi edificanti e di tutto ciò che possa contribuire ad organizzare un duraturo progresso a nazioni unite, senza pregiudizi.


FontePhoto by Ehimetalor Akhere Unuabona on Unsplash
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Luigi Trisolino, nato l’11 ottobre 1989 in Puglia, è giurista e giornalista, saggista e poeta, vive a Roma dove lavora a tempo indeterminato come specialista legale della Presidenza del Consiglio dei ministri, all’interno del Dipartimento per le riforme istituzionali. È avvocato, dottore di ricerca in “Discipline giuridiche storico-filosofiche, sovranazionali, internazionali e comparate”, più volte cultore di materie giuridiche e politologiche, è scrittore e ha pubblicato articoli, saggi, monografie, romanzistica, poesie. Ha lavorato presso l’ufficio Affari generali, organizzazione e metodo dell’Avvocatura Generale dello Stato, presso la direzione amministrativa del Comune di Firenze, presso università, licei, studi legali, testate giornalistiche e case editrici. Appassionato di politica, difende le libertà e i diritti fondamentali delle persone, nonché il rispetto dei doveri inderogabili, con un attivismo indipendente e diplomatico, ponendo sempre al centro di ogni battaglia o dossier la cura per gli aspetti socioculturali e produttivi dell’esistere.