Dalle solitudini subdemocratiche alle eque sinergie di libertà

I liberali puri reali non sono mai stati numericamente “troppi”; forse sembrano non esistere; tuttavia il sano rigore del loro metodo e la loro capacità di contemperare esigenze, stili di vita e realtà socioeconomiche, strutturalmente e talvolta anche ideologicamente contrapposte, ha permesso alla purezza liberaldemocratica di raggiungere lodevoli risultati storici. E buone (ancora poche) riforme.

I socialisti del cosiddetto “socialismo reale”, invece, non hanno mai mantenuto la propria purezza nella pragmatizzazione dei propri concetti anticapitalistici. Se sono giuste e talvolta anche urgenti le vertenze socialiste etiche di equità, per superare le punte anarcoidi di un capitalismo senza ascensori sociali accessibili a tutti, il cosiddetto “socialismo reale” o storico è stato impuro nella definizione stessa del proprio declinarsi al di fuori di ogni paradigma etico di equità anticlassista, in società. Luigi Einaudi, che l’11 maggio 1948 divenne Presidente della Repubblica italiana, ricordava l’importanza di “garantire la persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza dei privati”. In questo equilibrio di garanzie per il cittadino-persona che non sia un mero automa civico, così, si giuoca la partita nuova, libertaria e neopersonologica, neocostituzionale e neorepubblicana di sociabilità dei bisogni di tutti, in uno alla partita della valorizzazione delle vocazioni meritocratiche, dei sudori individuali, non familiaristi e non nepotisti, in economia come in politica, nella cultura come nelle professioni e nelle progressioni pubbliche o private.

Per portare a sintesi dialettica costruttiva quei punti complessi della parte pura, ancora fresca e non corrotta presente nelle eredità lasciateci dai liberali e dai socialisti veri, facendo in modo di non cadere dai gabinetti dei buoni intenti ai gabinetti delle burocratizzazioni ideologiche, occorre un sano parlamentarismo di rappresentanze eque e garantite, che congiunga ogni livello territoriale dal centro alle periferie. Occorre fare in modo che le geografie classiste non diventino geografie esclusive ed escludenti, nella scelta delle classi dirigenti, in ogni settore del vivere associato, e che il classismo non sia il metodo di elezione dell’offerta politica da mandare nelle tavole subdemocratico-elettorali degli inerti cittadini, costretti a scegliere per anni e anni da menu personalisti ed oligarchici prestampati, a lento nonché incerto riciclo nel migliore dei casi.

Per la cura del parlamentarismo come per la cura della rappresentabilità dei cittadini nelle istituzioni, però, non possiamo non ripensare a quel “si” che ha vinto il referendum di settembre 2020, con il conseguente taglio amputativo del numero dei parlamentari e del parlamentarismo stesso nel nostro Paese italeuropeo. Se in seno al sistema eurounionale si lamenta ancora la mancanza di una democrazia meno filtrata e più incisiva, dove per democrazia occorre andare alla radice greca antica del termine di potere al popolo (e, aggiungerei, per il popolo), sarebbe occorsa più rappresentabilità almeno nel versante interno nazionale, e quindi più popolo nel Parlamento italiano. Più democrazia per una minore neopartitocrazia autoreferenziale, spesso sorda nei confronti delle opportune pragmatiche riformiste.

Durante la campagna referendaria 2020 si è infatti parlato di rappresentabilità, di pluralismo, di territori. Si è parlato di partitocrazie e di contrasto delle oligarchie. Si è parlato di una forma democratica di Stato pluralista che sia a misura anche delle periferie civiche, nonché a misura soprattutto dei territori economicamente più depressi, con minori opportunità o con opportunità ripartite iniquamente, o a priori.

Evidentemente tutto questo non è servito a coloro che, per libero pensiero o per fame o per disillusione, hanno scelto di appoggiare l’idea del tagliare un qualcosa che non riesce a rappresentarli. I territori in cui il “si” al referendum costituzionale ha stravinto sono i territori – come il Molise o la Calabria – in cui i sostenitori del “no” mostravano le proprie preoccupazioni proprio sulla rappresentabilità delle aree economicamente più depresse del Paese. Che paradosso! In quell’occasione vinsero la sfiducia e la stanchezza dei cittadini, che stupidi non sono affatto, anzi, essi devono sempre essere ascoltati in modo propositivo e sincero, poiché la politica deve servire i cittadini e non se stessa. Si è discusso poco nel 2020, e per quel poco che si è discusso si è parlato della possibile capacità del Parlamento di rappresentare quegli spazi di civiltà italiana già così abbandonati dagli autoreferenziali centralismi decisionali, di carattere burocratico ed econometrico, che in quei territori hanno spesso rinunciato ad investire, rendendo gli stagni economici del Paese delle vere e proprie paludi di diseconomato sociale.

La soluzione allora è stata quella della selvaggia amputazione del Parlamento italiano, con una riduzione irragionevole nel quantum. Il popolo sovrano ha scelto un parlamentarismo amputato, e ci confronteremo tutti con questa realtà parlamentare più di nicchia, e da analizzare criticamente. Viva la volontà popolare, ma viva anche la critica delle coscienze nel loro divenire storico.

Il corso della storia maestra di vita sociale ci insegna che nelle sfumature di questi paradossi si celebrano le migliori opportunità, spesso inaspettate. Vorremmo pertanto essere sorpresi positivamente, come cittadini; vorremmo che le preannunciate stagioni riformistiche post-referendarie iniziassero ad avvisarsi in un percorso condiviso di carattere sistematico. Vorremmo programmi retti da criteri di coerenza, adeguatezza, ricerca dell’opportuno contrappeso civile e socioeconomico. Vorremmo una primavera politico-costituzionale prolungata,  illuminata da piani condivisi in cui si pensi anche all’economia del lavoro reale, e in cui ci si prefigga di raggiungere solide soluzioni in tema di lotta alle disparità sociali e di genere quando si parla di tutela e rappresentanza in Parlamento delle autonomie locali più “sperdute” – perché dimenticate – e più spaventate.

Una visione riformistica a singhiozzo e desistematizzante rischia di non garantire la stabilità e la coralità degli investimenti,  e finisce con il privare il Paese di una ossatura identitaria chiara e forte sul piano delle relazioni istituzionali e commerciali con l’estero.

I sostenitori del “no” referendario costituzionale sono stati definiti come dei romantici combattenti che pur presagendo il proprio schianto continuano a combattere. In realtà, all’interno del fronte del “no” referendario 2020 i progressisti riformisti al di là di letterari romanticismi erano per una idea di cambiamento socio-istituzionale dal sapore post-illuministico moderato, nell’equilibrio della ragione e delle proporzioni tra cittadini rappresentati e cittadini rappresentanti, all’interno di una realtà dinamica ed eterogenea che richiede maggiori capacità e dosimetrie di rappresentabilità.

Se la direzione “etica” di spending review ha preso il sopravvento, si abbassino un po’ gli stipendi dell’universo parlamentare, si invitino i lavoratori-rappresentanti della nazione ad intensificare la quantità e la qualità della propria forza-lavoro. Si chieda al nuovo mondo – o comunque al nuovo volto – del Parlamento italiano di superare le inefficienze e i rallentamenti nel sistema del “fare le leggi”, superando il bicameralismo paritario così come lo conosciamo in tanti anni di storia repubblicana, superando l’esercizio abusivo della decretazione d’urgenza da parte dei governi, superando le diseconomie e gli squilibri nell’utilizzo del fondamentale istituto della fiducia tra Parlamento e governo. Si regolamenti il rigoroso utilizzo dello strumento costituzionale della fiducia, affinché questa possa rappresentare davvero un vivido termometro degli indici di coerenza tra l’ordinamento formale e il diritto materiale in movimento, secondo le esigenze dei tempi in corso, nell’istituzione regina della democrazia possibile.

Se nessuno di questi punti appena esposti dovesse entrare nelle agende della politica e negli ordini del giorno, nelle sessioni e nelle sedute della legislatura in corso e di quelle a venire, in una progressione pragmatica urgente ma meditata, ci ritroveremo ad essere davvero soli, come cittadini e come esseri umani pensanti, in balia di un potere pubblico esecutivo che depotenzia il parlamentarismo sostanziale, e con esso le rappresentanze popolari nella sostanza dei risultati.

Le solitudini senza voce e senza rappresentanza diventano atrio d’astio fra individui e fra diversità, che a lungo andare diverrebbero monadi umane e territoriali incomunicabili, in una guerra fra poveri che non vogliono e che non si meritano ulteriori depauperamenti.

Le minoranze e i territori disagiati, dopo stagioni di assistenzialismo, pretendano i fondi del PNRR da investire sul proprio coraggio, pretendendo dai livelli di governo centrale ma anche da se stessi, tendendo così ad osare nel guardare più in là in un’ottica di investimenti e crescita, all’insegna di un libero mercato infrastrutturalizzato in senso tecnologico e securitario, equo ed ecologico per necessità, liberale per opportunità. Pretendere anche da se stessi? La retorica pop dominante promette in perenni campagne cibernetico-elettorali a ruota libera, ma poi la retorica tradisce le persone una volta che viene denudata oltre il palco. La retorica sa solo mettere fuoco sulla paglia della miseria, e la miseria deculturalizza, disorienta, scoraggia. Si ritrovi quindi il coraggio, ciascuno partendo dalla bellezza delle proprie diversità e unicità. Solo se si è forti dentro si può pretendere fuori, in questa dura realtà di inconsapevolezze.

Se non saranno avviati dibattiti vivi e vividi su riforme reali, concrete ed effettive nella pienezza delle sfide per il progresso di ottimizzazione del Paese, ci ritroveremo nelle solitudini di un sistema che schiaccia quelle individualità e quelle collettività che si ritrovano diverse, distinte dai cori da stadio elettorale. Ci ritroveremo in un assetto riformato ed amputante che ha inciso sulla stessa forma di Stato, ossia nella relazione tra governanti e governati, oltre che sulla forma di governo e quindi nelle relazioni infra-statuali tra le distinte anime istituzionali, con una istituzione parlamentare – stavolta – di fatto depotenziata.

Se restiamo sordi e accasciati nelle notti dei tempi, nelle bolle delle propagande elettorali perenni, tra demagogie neoplebiscitarie di basso profilo e neopartitocrazie pop, quando promuoveremo l’evoluzione?

Voglio nutrire opportune speranze, speranze che siano edificanti, propositive, ma sempre (auto)critiche e in divenire; perché l’alter ego della speranza critica di ciascuno di noi – cittadini! – sarebbe la vittoria di un titanismo populista senza titani, di un monodeismo senza deus ex machina, di un vuoto politico neo-assolutistico che non accetta di essere libertariamente relativizzato.

Se i liberali puri spesso hanno governato le necessità storiche con buoni e ferrei ideali aperti e con sapiente pragmaticità, affrontando situazioni ardue nelle funzioni di ammortizzatore politico delle proposte eccessivamente radicali, e di sintesi e cura delle antitesi ideologiche fra categorie socioeconomiche, la loro carica valoriale non ha mai dismesso di stringere con il pugno delle libertà la missione della rivoluzione liberale. In una visione figlia del suo tempo – come tutte le visioni – ma al contempo paradigmatica e sistematica, e così capace di ispirare anche i contemporanei di questo tempo in divenire, scriveva Piero Gobetti che “Le nostre sono antitesi integrali: restiamo storici, al di sopra della cronaca, anche senza essere profeti, in quanto lavoriamo per il futuro, per un’altra rivoluzione”. Quell’altra rivoluzione – liberale, e oggi potremmo anche dire demolibertaria – potrà realizzarsi senza eccessivi impeti e senza barricate, senza lacrime e senza mai barbarie, ma con tanto sudore dalla mente attraverso il progressivo esercizio delle coscienze cittadine, nei diversi e complementari ruoli sociali, civici ed istituzionali. Le dialettiche ragioni di quell’altra rivoluzione hanno il dovere attuale di estromettere il rischio stesso che possa surrettiziamente insinuarsi l’estremismo nelle istituzioni. I liberali sociali hanno la coscienza metodologica per comprendere come sia labile ogni confine tra gli analfabetismi e i populismi, e tra gli incalcolabili neopopulismi e gli aliberali disfattismi delle conquiste costituzionali. Il mainstream della politica odierna, pur lontano dagli orrori degli estremismi novecenteschi, deve avere la dignità e il coraggio di non allearsi e non chiedere appoggi elettorali alle liste e ai simboli che hanno simpatie ideologiche estreme ed illiberali, nemmeno nei periodi di magrezza percentualistica.

Navigando incoscientemente verso una subdemocrazia delle solitudini quale futuro avremmo? La partita è aperta, gli strumenti delle libertà civiche e politiche sono su una scacchiera dove occorre far entrare la luce per distinguere gli spazi valoriali chiari da quelli oscuri. E quando la luce viene spenta dalla limitazione degli strumenti politici e giuridici delle libertà, il giuoco della partita si fa socioculturalmente, nonviolentemente, cardinalmente lotta. Finché quest’ultima non sarà organizzata dagli intellettuali in mezzo ai nervi scoperti della popolazione, il liberale nutra la propria scomoda post-gobettiana (e non solo) speranza di lotta; per una rivoluzione liberale ancora tutta da scoprire. Dalle incapacità del liberalismo classico alle punte claudicanti di quello progressista, si può tendere verso un libertarismo sociale democratico: dalle solitudini della subdemocrazia alle eque sinergie di plurali libertà.

Consci della buona tradizione, urge questa novità, un paradigma riformista mixato con nuovi strumenti di declinazione attuativa.


FonteFoto di Basil James su Unsplash
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Luigi Trisolino, nato l’11 ottobre 1989 in Puglia, è giurista e giornalista, saggista e poeta, vive a Roma dove lavora a tempo indeterminato come specialista legale della Presidenza del Consiglio dei ministri, all’interno del Dipartimento per le riforme istituzionali. È avvocato, dottore di ricerca in “Discipline giuridiche storico-filosofiche, sovranazionali, internazionali e comparate”, più volte cultore di materie giuridiche e politologiche, è scrittore e ha pubblicato articoli, saggi, monografie, romanzistica, poesie. Ha lavorato presso l’ufficio Affari generali, organizzazione e metodo dell’Avvocatura Generale dello Stato, presso la direzione amministrativa del Comune di Firenze, presso università, licei, studi legali, testate giornalistiche e case editrici. Appassionato di politica, difende le libertà e i diritti fondamentali delle persone, nonché il rispetto dei doveri inderogabili, con un attivismo indipendente e diplomatico, ponendo sempre al centro di ogni battaglia o dossier la cura per gli aspetti socioculturali e produttivi dell’esistere.

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