Un bambino che è figlio della sua nonna-madre-zia

Una donna di 61 anni – l’americana Cecile Eledge – ha partorito un bambino concepito con l’ovulo della figlia e con lo sperma del compagno del figlio gay. Il bambino, dunque, sarebbe di fatto nipote e fratello di uno dei due genitori (all’anagrafe) omosessuali, l’unico che non ha fornito materiale genetico.

La notizia è impressionante perché infrange ogni limite: c’è la nonna-mamma, ci sono due maschi che ottengono una figlia, c’è un papà-fratello, c’è il passaggio assai disinvolto dal genitore 1 e 2 al “genitore collettivo”, ma soprattutto c’è una bimba che come mamma ha un uomo, ma anche una nonna e una zia.

Quindi, il bambino è nipote della donna-madre-zia (quella che ha fornito l’ovulo), nipote della donna-madre-nonna che l’ha partorito, figlio dell’uomo che ha fornito il suo sperma, se vogliamo considerare il materiale genetico e quelli di parentela giuridica.

Siamo in presenza di una prorompente vertigine da onnipotenza dell’uomo contemporaneo di cui il prometeismo rappresenta la cifra nelle possibilità tecniche di riproduzione umana in cui l’uomo sconfina nella ambivalenza di essere contemporaneamente soggetto produttore ed oggetto prodotto.

Ci ritorna, quanto mai attuale, l’utilità di richiamare il significato che si evince dal Prometeo incatenato, geniale tragedia di Eschilo e metafora della cultura scientista, nel quale si rappresenta l’illusione del semidio che sfida Zeus per compassione degli uomini (“L’ho fatto per amore di mio figlio”, ha dichiarato la donna sessantunenne) ritenendo così di poter dare loro coscienza di sé e autodeterminazione.

È una forma di prometeismo chiuso all’appello dei valori che si affida al solo fare tecnico per definire i termini del bene e della felicità.

La riproduzione umana è così ridotta da atto umano ad atto dell’uomo, desertificandola di qualsiasi valore, appunto umano, e falsificandola mediante un processo che cosifica la vita: la sessualità si riduce a genitalità; l’embrione è solo un insieme di cellule più o meno specializzate ed oggetto di qualsiasi manipolazione e sperimentazione; il rapporto genitore committente – medico – figlio si identifica nel paradigma soggetto dominatore – oggetto prodotto dominato; dalla famiglia monogamica si transita verso una famiglia plurigenitoriale dove si verifica una differenziazione significativa tra parentalità genetica, gestazionale e sociale; l’identità biologica del neonato non si identifica con quella sociale.

Il figlio desiderato diventa frutto sì di un progetto ma scelto e preferito secondo criteri produttivistici ed utilitaristici dove avviene la identificazione di ciò che rappresenta la bontà del prodotto con il bene.

L’esigenza di ricorrere alla figura del donatore o della donatrice, o di entrambi, enfatizza il significato di una procedura che sconvolge convalidati punti di riferimento della identità procreativa umana e che presuppone ed ha per fine il possesso di un figlio anche se svincolato da qualsiasi legame genetico. Si desidera non il figlio ma un figlio.

Il valore in sé della persona smarrisce il suo significato di verità oggettiva per relativizzarsi nelle istanze e nelle progettualità di utilità genitoriale o sociale: epifenomeni questi di un’etica che sostituisce la morale della responsabilità con quella dell’arbitrio.

Assistiamo ad una evoluzione delle classiche prospettive verso un progetto antropotecnico (biotecnologie procreatiche e manipolazione dell’identità genetica umana) che conduce al dominio dei processi di procreazione, alla manipolazione del concetto di persona, alla depersonalizzazione della procreazione.

Tale progetto antropotecnico fa proprie le istanze della cosiddetta moralità della intenzionalità, che giustificherebbe di per sé il ricorso a qualsiasi procedura tecnica, così che tutto ciò che può soddisfare una richiesta, definita comunemente come libera, assume criterio di liceità.

Il desiderio di una coppia di avere un figlio non può essere di per sé un diritto (anche per le coppie omosessuali, checché ne pretenda un paralizzante e censorio ‘politically correct’). La “naturale aspirazione alla procreazione” è sì un diritto naturale, ma siamo sicuri che ogni naturale e comprensibile desiderio debba essere considerato un diritto e come tale riconosciuto e tutelato?  Non c’è, al fondo di questa idea, una concezione intimamente individualista, anzi narcisistica?

È quanto mai urgente comprendere che il telos (fine) dell’agire umano deve orientarci a fare il bene e non a raggiungere solo il proprio bene (un figlio a tutti i costi), evitando così di confondere il desiderio col diritto e che il capriccio susciti raccapriccio.