Referendum, the day after. Domenica 17 aprile, la maggioranza degli italiani ha scelto di non votare. Antonio Del Giudice prova a farsi interprete della loro voce.
Domenica io non sono andato a votare. Non c’entra Renzi con i suoi appelli. C’entra la mia profonda convinzione che questo referendum sia stato sbagliato e strumentale. Il quorum non raggiunto mi ha rafforzato nella convinzione.
Cerco di spiegarmi, e lascio perdere la strumentalità, che pur non sfugge e che riassumo così: il Sì ha visto insieme una arcobaleno di forze sinceramente ambientaliste, di forze che hanno scempiato il territorio e di mestatori che mai si sono occupati di mare pulito e di energie verdi. Ognuno può mettere insieme i nomi che vuole. La gran parte di loro voleva far cadere il Governo, non togliere le trivelle dal mare. Era chiaro.
E vengo al cuore del problema. Il referendum ha fallito lo scopo perché è stato percepito dal popolo come un’azione velleitaria, oltre che strumentale. Che senso ha un referendum che produce effetti fra vent’anni, magari a pozzi di gas e petrolio (pochi) esauriti o quasi? Ecco, penso che un referendum “a babbo morto” abbia interessato poco, perché poco valeva. E, se questo non bastasse, i promotori non devono essere stati convincenti per altri motivi, che provo a riassumere.
Gli ambientalisti e i loro alleati del momento hanno legato al Sì una serie di effetti piuttosto avveniristici. L’abolizione delle trivelle (fra vent’anni) avrebbe prodotto (da subito) energie verdi e posti di lavoro a centinaia di migliaia, mari puliti, spiagge rigenerate, folle di turisti e così via. Credo che bastasse un po’ di buonsenso per capire che, se la vittoria del Sì non poteva avere effetti immediati, su quale fondamento si poggiavano le altre promesse? E poi: come mai l’Adriatico, che non risulta invaso da petroli, in alcuni tratti è una fogna pericolosa per la salute di uomini e pesci? Le Regioni promotrici del referendum si sono mai seriamente adoperate per fermare le cause dell’inquinamento? Al contrario, tanto per dirne una: perché l’Emilia-Romagna, che ha più trivelle che il resto d’Italia, ha mare pulito e turismo fiorentissimo? Domande non peregrine, dal mio punto di vista. Alla fine della fiera, gli italiani hanno preferito mantenere quello che oggi c’è (posti di lavoro e sviluppo di tecnologie industriali), a fronte di quello che forse ci sarebbe stato fra vent’anni. Un atto di concreta saggezza.
C’è un’ultima considerazione che ha convinto molti indecisi a restare a casa. Mescolare il referendum contro le trivelle con l’inchiesta di Potenza, anticipando la sentenza, è stato un boomerang e un atto di giustizialismo soverchiante il quesito del referendum. I referendum non devono servire ad orientare la giustizia, in un Paese libero e serio. Anche il giustizialismo urlato alla fine stufa.
Allora, le battaglie da fare forse sono altre: la prima e più importante è convincere il Governo ad investire da subito più fondi per le energie alternative, per la ricerca e per un futuro pulito, ché tanto il petrolio finirà e il gas pure. Ma, per carità, senza cedere a ideologie di decrescita e ad altre trovate illusionistiche. Perché la decrescita colpirebbe comunque i soliti noti, non certo i petrolieri.
Ci sarebbe qualcosa da aggiungere sulla debolezza di un quesito che riguardava una parte assai limitata del territorio italiano. Ma questo ci porterebbe lontano nel mare magnum dei cavilli. Qui conta la sostanza. E sulla sostanza, ho detto con franchezza il mio parere, che certo avrà i suoi punti deboli; e ho tentato di spiegare le ragioni di un referendum improvvido e comunque mal gestito. O almeno così dev’essere parso alla stragrande maggioranza degli italiani, che sono rimasti a casa.